“El Pocho… el pocho es la pizza”. Il pocho è la pizza.
Siamo nel 2009, solito campetto di città, dove ho visto più cadaveri di birre che palloni giocabili. Ho appena giocato la partita del torneo della zona, contro una squadra di argentini dalle precarie condizioni fisiche, tatticamente messi bene in campo, ma a rischio di embolia polmonare da un momento all’altro. Lo spogliatoio, nel post partita, è misto: ho fatto praticamente amicizia con i miei avversari e, tra una battuta su un loro gol letteralmente mangiato e una svista dell’arbitro, mi permetto di fare una domanda ai miei nuovi companeros argentini: “Scusate ma cosa vuol dire El Pocho?” riferendomi ad Ezequiel Lavezzi, ai tempi militante nel Napoli di Mazzarri.
Mi risponde uno di loro all’ottavo mese di gravidanza, seduto sulla panca, sguardo fisso nel vuoto al centro del pavimento, battito cardiaco al minimo storico, ancora un po’ ansimante dalla fatica immane provata nel lavarsi interamente senza aver mai chiesto la sostituzione sotto la doccia.
“El Pocho es la pizza” è quello che mi sono sentito rispondere. Nonostante dubitassi fortemente della reale fondatezza di quella affermazione ho preferito non approfondire ed evitare di fare altre domande. Sono sicuro che avesse capito cosa intendessi, ma visto l’astinenza da cibo che lo attanagliava da almeno tutta la durata della partita, cioè ben 25 minuti, è stato tradito dall’unico pensiero fisso che lo martellava (la pizza), indi per cui mi ha risposto in quel maniera. La storia del soprannome di Lavezzi , in realtà, è un’altra: “Quando ero bambino avevo un cane che si chiamava “Pocholo”. Quando se ne andò, mio fratello ed il suo migliore amico cominciarono a chiamarmi con quel nome perché rompevo le scatole proprio come lui. Da quel momento la gente della mia città, Villa Gobernador Galvez, cominciò a chiamarmi “Pocholo”, finchè in Nazionale Under 20 incontrai un vecchio compagno della mia stessa città che, conoscendo il mio soprannome, cominciò a chiamarmi Pocholo davanti a tutti i compagni. I ragazzi dello spogliatoio abbreviarono Pocholo in Pocho e da quel momento questo è il mio nome, il mio marchio.” Queste la spiegazione del diretto interessato qualche anno fa.
Ma El Pocho è solo uno dei tanti soprannomi che in argentina sono soliti affibbiare ai propri beniamini. Non è da tutti per esempio soprannominare Aguero, il nipote del Pibe de Oro, Kun, per la somiglianza ad un personaggio dei manga giapponesi che in realtà si chiama Kum Kum, così come non è da tutti scriverlo sulla maglia della nazionale in maniera errata.
La fantasia in Argentina supera ogni limite quando Claudio Lopez viene chiamato il pidocchio, (el Piojo) ma non sappiamo se per la sua scarsa igiene personale o per la sua presenza in campo che infastidiva i difensori avversari: a voi l’ardua sentenza. El Frasquito invece, è il rumore che produce il tappo del barattolino di marmellata che la mamma da al bambino a colazione ed è inoltre il nomignolo di “Machi” Moralez o Maxi Moralez, dipende se stai leggendo secondo la pronuncia del Gran Maestro Federico Buffa o meno. Ariel Ortega era “El Burrito”. L’ex trequartista di Sampdoria e Parma era soprannominato “El Burrito” (in italiano l’asinello), per la sua postura e il suo incedere palla al piede, con un andamento scostante simile a quello di un ciuchino, o di un ubriaco.
Gonzalo Bergessio era “El Lavandina”. Detto anche “El Toro” per l’imponente fisico, il soprannome più divertente è però l’altro, “El Lavandina”, cioè “il candeggina”, per il colore chiaro, quasi rossiccio e fulvo, dei suoi capelli, un colore sbiadito, decolorato, come avviene per gli abiti se lavati con la candeggina. Questi sono solo alcuni epiteti che la mente del tifoso argentino, dopo una grigliata a base di asado e vino rosso del penny market, ha prodotto nel corso degli anni.
Nella nostra squadra di calcetto i soprannomi non erano da meno: c’era il Bomber, ma mica perché segnava, ma perché ha passato le scuole medie con indosso quel mitico giubbotto; il Furetto aveva un’agilità fuori dal normale nel passare da una bionda ad una rossa, mezza pinta alla volta ovviamente. Infine lui: Calza. No, i suoi dati anagrafici non c’entrano nulla, l’aneddoto che ha dato vita a questo nomignolo è un altro. Un paio di anni prima al massimo, questo nostro compagno che per la privacy chiameremo F. Ederico, a causa della fatale dimenticanza della biancheria intima in una fredda giornata di dicembre, si è presentato all’appuntamento amoroso con la sua ragazza indossando sotto i pantaloni della tuta esclusivamente un calzettone della Legea. Usato.
E voi bomberoni? Qual è il vostro soprannome nel gioco più bello del mondo?
@gimmo99