Eccomi qui. Per la seconda volta da quando faccio questo mestiere, soli tre anni, mi trovo così, zuppo, in giacca e cravatta, felice come una Pasqua con i miei ragazzi che festeggiano in mezzo al campo. Ma iniziamo con ordine perché questa è una storia che va raccontata dal principio. Sì perché questa è una grande storia. È una storia di vittorie e sconfitte, vincitori e vinti, di leader e gregari, di personaggi e uomini, veri. È una storia di sport e di vita, di fenomeni … una storia di numeri uno. Questa è la mia storia.
Fin da quando ero poco più che un bambino non ci voleva un genio per capire che tra tutti ero io ad avere quel qualcosa di speciale, che ero un predestinato del pallone. La differenza con gli altri ragazzi era lampante e non ci volle molto prima che le persone giuste se ne accorgessero. A 13 anni già giocavo nelle giovanili di uno dei club più prestigiosi al mondo. I miei piedi, e ancor più la mia personalità, hanno subito deciso quale sarebbe stato il mio ruolo negli anni di lì da venire. Regista. Fin da allora la mia posizione era ben definita: nel mezzo a smistare palloni e dettare tempi a quei ragazzi che mi correvano intorno. Quel vivaio rappresentava il meglio del calcio mondiale a livello giovanile. I miei compagni provenivano da paesi di tutto il mondo, spesso erano più grandi di me e molti di loro spiccavano per la loro grande personalità.
Mai ho provato timore reverenziale nei loro confronti!
Avevo 19 anni quando un mostro sacro del calcio mondiale, uno dei giocatori più forti di tutti i tempi, decise che era giunto per me il momento di smetterla col calcio dei piccoli. La mia avventura in prima squadra ebbe inizio e solo 10 anni dopo sarebbe finita. Nessuna spiegazione particolare prima di buttarmi per la prima volta nella mischia, in mezzo a quei campioni che fino a qualche giorno prima avevo potuto ammirare soltanto in televisione. Niente di più che non potesse essere trasmesso con una semplice pacca sulla spalla. Il mister era un tipo di poche parole ma tutti lo stavano a sentire, nello spogliatoio così come in campo. Era una delle personalità più grandi che il calcio mondiale abbia espresso in tutta la sua storia. Il suo nome era Johan Cruyff.
Mai ho provato timore reverenziale nei suoi confronti!
Il 1992 era l’anno delle Olimpiadi di Barcellona e le Olimpiadi sono la più importante manifestazione calcistica a livello giovanile. Avevo 21 anni e avevo appena conquistato la mia prima Coppa dei Campioni. Sotto il sole cocente e il caldo umido dell’estate Catalana ho sudato correndo su e giù per il campo e lottando su ogni pallone; eravamo uno scalmanato di gruppo di ragazzini, di giovani uomini, e abbiamo battuto le più forti nazionali del mondo. Ancor oggi il ricordo di quella medaglia rappresenta una delle maggiori soddisfazioni della mia carriera. È incredibile come, ripensando a quella selezione, tutte quelle “furie” siano poi diventate stelle di calibro internazionale. Erano ancora solo giovani promesse ma tutti avevano una grande personalità. I loro nomi erano Luis Enrique, Kiko, Alfonso.
Mai ho provato timore reverenziale nei loro confronti!
Anche il tempo dell’under 21 passò in fretta. Trascorsero pochi mesi dalla medaglia d’oro olimpica e il centrocampo della nazionale maggiore era già pronto ad accogliermi. Anche lì il discorso non era molto diverso. Stessi illustri allenatori, stesso ruolo in mezzo al campo, stessi campioni a girarmi intorno. Nonostante uno sfortunato problema fisico mi colpì al momento sbagliato, prima dei mondiali 1998, quando forse ero all’apice della mia carriera, ero il regista titolare ogni volta che la forma me lo permetteva e di fenomeni, anche lì, in tutti quegli anni, ne ho visti passare tanti. Tutti quei campioni avevano una grande personalità. I loro nomi erano Fernando Hierro, Andoni Zubizarrete, Raul Gonzalez Blanco.
Mai ho provato timore reverenziale nei loro confronti!
Da quando Johan Cruyff mi affidò le chiavi del centrocampo in quella partita d’esordio, e poi per tutto il resto della stagione, ogni nuovo allenatore che arrivava confermava quella scelta. Diventai pian piano il punto di riferimento della squadra, tanto che appena un mostro sacro come Bakero decise che era arrivato il momento di appendere le scarpette al chiodo la fascia di capitano fu mia. Ero un classico regista. Uno di quelli che va incontro al difensore per farsi dare la palla tra i piedi prima che la butti a casaccio da qualche altra parte. Uno di quelli che se l’attaccante parte al momento giusto sul filo del fuorigioco lo metto in porta con un lancio di 40 metri. Tanto era cambiato dai primi calci tirati con gli amici ma il mio compito era per certi versi ancor più facile di allora: giostrare palloni per quei fenomeni che mi giravano attorno. Tutti quei campioni avevano una personalità infinita. I loro nomi erano Ronald Koeman, Hristo Stoichkov, Romario.
Mai ho provato timore reverenziale nei loro confronti!
Oggi sono qui a esultare per l’ennesimo trofeo di questa fantastica squadra. Abbiamo vinto un’altra Coppa dei Campioni. Ma ormai non sono più in mezzo al campo con i miei compagni a dettare i tempi dei passaggi e smistare palloni per loro. Il mio compito è quello di guidarli seduto a bordocampo. Li guido passo per passo durante la settimana e partita dopo partita, non corro e non sudo più insieme a loro, ma vi assicuro che arrivati al 90° sono sfinito ancor più di quando scendevo in campo. È un nuovo lavoro, un nuovo modo di partecipare alla competizione, un nuovo modo di vincere che non vi nascondo dà molte più soddisfazioni del vecchio; ma in fondo, così come il vecchio, non è poi tanto difficile avendo la fortuna di allenare il meglio che il calcio mondiale possa offrirmi. I miei ragazzi, proprio come un tempo i miei compagni, sono dei campioni, dei numeri uno, dei vincenti, dei veri fenomeni e tutti loro hanno una grande personalità. I loro nomi sono Lionel Messi, Andrès Iniesta, Xavi Hernandez.
Mai ho provato timore reverenziale nei loro confronti!
Un passo indietro: prima di sedermi su questa panchina, quando ancora tiravo calci al pallone, prima di diventare un peso per una squadra che, anche grazie al mio decennale contributo, aveva raggiunto i vertici del calcio europeo e mondiale preferii salutare tutti e dire basta. Una nuova avventura professionale e culturale mi aspettava. La nuova sfida era dimensionata alle possibilità fisiche che l’età mi imponeva. Una nuova squadra, una provinciale, e un nuovo paese, l’Italia. Eppure, come spesso accade, quando meno te lo aspetti la vita ti riserva sorprese inattese. La salvezza e non più la Coppa Campioni era il mio obiettivo, poche migliaia di tifosi e non più gli 80.000 del Camp Nou erano a supportarmi. Per la prima volta giocavo con compagni che non avevano una personalità infinita e non incutevano timore reverenziale nei confronti di chiunque; anche lì smistavo palloni per tutti quelli che mi correvano intorno anche se non tutti pendevano dalle mie labbra, non tutti guardavano ai miei gesti e non tutti cercavano il mio sguardo per capire cosa fare. In panchina c’era un anziano signore che li guidava: per la prima volta dopo tanti anni un allenatore mi insegnò qualcosa di nuovo. Il suo nome era Carletto Mazzone. In campo, al mio fianco, c’era un altro signore a guidarli: tutti lo veneravano come una divinità. Mai prima di allora avevo incontrato qualcuno con tanta personalità.
Per la prima volta ho provato timore reverenziale nei confronti di qualcuno!
Il suo nome era Roberto Baggio.
Il mio nome è Pep Guardiola. Se preferite chiamatemi Peppe.
Articolo di: Massimo Di Filippo
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