“Rui Costa dentro, palla buona per Shevchenko, Shevchenko, SHEVCHENKOOOOOOO, rete!!!! Uno a zero per il Milan. Rui Costa ha illuminato la notte di San Siro con un apertura deliziosa e Shevchenko non ha perdonato Casillas.”
E’ il 26 novembre 2002, allo stadio Giuseppe Meazza, i rossoneri incontrano il Real Madrid. Gara valida per il secondo turno di Champions League. Mister Ancelotti schiera Rui Costa e Rivaldo, dietro l’unica punta Shevchenko. Il Milan parte bene, i suoi fantasisti sono ispirati.
Costacurta allontana di testa un cross di Figo, Seedorf controlla e appoggia per Kaladze, il quale serve Rui Costa, posizionato dietro il cerchio di centrocampo. Il portoghese si gira e pennella un assist meraviglioso per l’Ucraino, che partito largo, si inserisce tra le maglie bianche della difesa Madridista e batte Casillas con un destro ad incrociare chirurgico.
Quella Champions League la vinceranno proprio i ragazzi di Ancelotti, nella storica finale tutta italiana contro la Juventus, terminata ai calci di rigore.
Purtroppo non c’è più, ma su Youtube tempo fa, c’era un video nel quale si potevano vedere tutte le azioni del portoghese durante la finale. Il Milan si schierava con il rombo a centrocampo, che vedeva come vertice basso Pirlo, a sinistra Seedorf, a destra Gattuso e come vertice alto Rui. In quella partita era ovunque, impostava l’azione, dettava l’ultimo passaggio,si faceva dare la palla in qualsiasi posizione, quando il Milan perdeva palla si posizionava dietro per difendere e dare una mano ai suoi compagni.
Nasce il 29 marzo del 1972. Anno in cui Bill Gates e Paul Allen fondarono quella che sarebbe diventata la Microsoft. Il regista Francis Ford Coppola, realizzò la prima pellicola della trilogia de “il Padrino”.
Nasce a Lisbona, la capitale portoghese, cresce nella Damaia, barrio umile della città.
Manuel è un bambino modello. E’ bravo a scuola, ma è bravo anche con i piedi. Obbliga i suoi amici a giocare in casa, usando i divani come porta, mentre la madre prepara la zuppa di pesce. La svolta arriva durante un provino per il Benfica.
Al primo tocco di palla, un certo Eusebio, nota subito il ragazzino. E’ gracile, è il più piccolo, ma il talento è cristallino. La pantera nera sarà prima un insegnante di vita, poi un allenatore.
Rui Costa ricorda ancora quella partita, nella quale si lasciò andare e disse una parolaccia. Eusebio lo tirò fuori dal campo immediatamente.
L’esplosione vera e propria arriva nell’estate del 1991. Si giocano i mondiali under 20, il Portogallo schiera Rui Costa, Figo, Paulo Sousa e Joao Pinto. Rui indossa la maglia numero cinque in quella competizione, segna la rete decisiva in semifinale contro l’Australia. In finale c’è il Brasile di Roberto Carlos ed Elber. La partita si decide ai rigori, quello decisivo lo realizza proprio lui. Portando il Portogallo sul tetto del mondo.
L’Europa inizia ad accorgersi del ragazzo. Dopo tre anni nel Benfica di Eriksson, nell’estate del 1994 il giovane trequartista si trasferisce a Firenze. Cecchi Gori sborsa undici miliardi delle vecchie lire per averlo. Formerà con Batistuta un attacco pazzesco, ma tra i due nascerà anche una bellissima amicizia, nonostante avessero ben poco in comune. Con la città e i tifosi è amore vero. Il Franchi lo adora, viene paragonato a due mostri sacri come Baggio e Antognoni.
‘Rui / baila la Portuguesa / passa la pelota a Nuno / segna e poi facci cantar’ intona per lui la Fiesole.
Segnerà cinquanta gol in duecentosettantasei presenze. La favola idilliaca si conclude proprio nel settimo anno (la crisi del settimo anno). La Fiorentina sta fallendo e i pezzi pregiati vengono venduti ad uno a uno. Batistuta è andato alla Roma, Toldo all’Inter e Rui?
Il ragazzo ha l’imbarazzo della scelta, c’è il Parma che gli offre un ambiente simile a quello di Firenze. Il Real Madrid dell’amico Figo offre cinquanta miliardi, ma sono “pochi”. La Lazio di Cragnotti sembra averlo tesserato, quando arriva la chiamata di Galliani. E’ una torrida giornata di luglio dell’estate del 2001, il Milan ha appena completato un attacco che fa sognare i tifosi.
Rui costa – Inzaghi – Shevchenko.
Ha lasciato Firenze solo perché è stato costretto, non se ne sarebbe mai andato. Considera le sue due città natali Lisbona e Firenze. Il suo primogenito lo chiama ancora “babbo”, tipica espressione toscana. I tifosi viola organizzarono una festa al Franchi per salutarlo, la sua presenza non era prevista, era già a Milano. Rui, con la sua incredibile umiltà, si presentò allo stadio. Niente foto, niente celebrazioni, non era lì da calciatore, era lì da Fiorentino.
“Ho vinto poco a Firenze, ma a livello di Champions League non so quante Champions League ho conquistato.”
A Milano, l’avventura inizia con un brutto infortunio al gomito e la sfortunata annata di Terim. Le cose migliorano con l’arrivo di Carlo Ancelotti. Nella stagione 2002/2003 alza al cielo di Manchester la Champions League, vince la coppa Italia nella doppia finale contro la Roma di Capello e la Supercoppa Europea ai danni dei rivali del Porto.
Uno a zero, gol di Sheva su un cross splendido del solito Rui.
Un anno quasi perfetto per il Milan e il portoghese.
Tra i tanti soprannomi che Pellegatti gli ha affibbiato, il mio preferito è Musagete.
“Appellativo di Apollo. Guida e capo delle muse.”
L’anno successivo è caratterizzato dall’arrivo in rossonero di Kakà. Stesso ruolo, ma più giovane, più veloce. L’ambientamento del brasiliano nel calcio italiano è qualcosa di incredibile. Non lo ferma nessuno, segna, risolve le partite quasi da solo. Ancelotti non vorrebbe rinunciare a nessuno dei due, spesso utilizza l’alberto di Natale.
Un 4-3-2-1, che prevede la coesistenza di due trequartisti. Ma qualcuno dall’alto non gradisce.
Il Milan si laurea campione d’Italia. E’ il Milan di Kakà. Rui partecipa poco, è spesso relegato in panchina. Dopo un anno ad osservare l’esplosione del numero ventidue, Rui gioca l’europeo a casa sua. Delusione cocente per lui e per tutto il Portogallo. I Lusitani vedono svanire il loro sogno in finale contro la Grecia. Anche in nazionale fu costretto a convivere con un altro concorrente. Deco. Nonostante le panchine e i pochi minuti giocati, mai una parola di troppo, mai una polemica. Umiltà ed educazione lo hanno sempre contraddistinto. Dentro e fuori dal campo.
L’anno successivo sarà quello tragedia calcistica di Istanbul. Il Milan perde una finale assurda contro il Liverpool. L’avventura rossonera dura ancora una stagione.
Verrà ricordato per gli assist, quasi settanta. Uno più bello dell’altro. Dai più maligni verrà ricordato anche perché non segnava mai. Già, solo undici le reti del portoghese con la casacca rossonera. Segnerà lo stesso numero di gol, nei suoi ultimi due anni al Benfica.
Torna a San Siro, in una notte di Champions League con il suo Benfica. Per l’ultimo saluto, viene onorato da eroe. La curva Sud lo ringrazia e lui risponde inchinandosi. Come fa il suo amico e compagno Seedorf dietro di lui.
“Il Milan ti entra nelle vene e non ti esce più.”
Numero dieci sulle spalle, maglietta fuori dai calzoncini, calzettoni bassi, parastinchi in vista, nastri ai polsi e sopra il ginocchio, per tenere caldo il prezioso rotuleo. Ecco a cosa penso quando sento pronunciare la parola “trequartista”. Il mio pensiero va subito a quel portoghese, che recitò quel ruolo nella miglior maniera possibile.
Oltre ad una tecnica sublime, Rui era dotato di una visione di gioco mostruosa. Lo spazio per il passaggio non c’era? Beh lui in qualche modo lo trovava. Non si limitava a passare la palla. Prima sistemava un tappeto rosso che partiva dai suoi piedi e finiva ai piedi del compagno, solo dopo ci faceva scivolare sopra il pallone. In modo tale che questo arrivasse sui piedi del compagno nella miglior maniera possibile. Non erano assist quelli, erano pepite d’oro.
Se Sheva e Pippo sono stati fortunati ad avere dietro di loro uno come lui. Anche il numero dieci rossonero ha avuto la fortuna di avere come finalizzatori due che, quelle pepite le depositavano in banca come Dio comanda.
Giocava a testa alta Rui, guardava le stelle mentre danzava in mezzo al campo, con la palla incollata al piede, in attesa del movimento giusto del compagno.
Ha diretto l’orchestra rossonera, nella Scala del calcio mondiale. Non è una cosa che ti puoi permettere di fare se non hai la sua testa, la sua corsa e i suoi piedi.
Lui poteva, perché per lui dirigere era un istinto naturale.
Decideva lui a che velocità andare, quando bisognava accelerare e quando bisognava rallentare.
Obrigado Maestro.
“E’ un fuoriclasse puro, quindi giocatore di statura straordinaria, mondiale. E’ l’unico, assieme a Zidane, in grado di cambiare volto a una squadra. Anzi più di Zidane. Rui è giocatore universale, completo. ”
Zvonimir Boban.
Articolo di: Gezim Qadraku