Nasce il 5 febbraio del 1984 a Ciudadela, periferia ovest di Buenos Aires. Cresce in uno dei posti più difficili al mondo, il Barrio Ejército de los Andes, meglio conosciuto come Fuerte Apache. Nome che venne dato al quartiere da un giornalista argentino ispiratosi al film “Fort Apache – The Bronx”.
Un posto caratterizzato da spazzatura, auto che vanno a fuoco, baracche, strade rovinate, odori atroci, fogne a cielo aperto, vicoli bui e pericolosi nei quali girano droghe e armi. Chi nasce in un luogo del genere capisce ben presto di avere pochissime possibilità nella vita.
Questi ambienti potrebbero essere descritti utilizzando la struttura del film “Requiem for a Dream” nel quale il regista decise di dividere la pellicola in tre stagioni, escludendo la primavera. La quale è sinonimo di rinascita e di vittoria della vita. Lo stesso si può dire di questi quartieri, nei quali non c’è la prospettiva di un futuro migliore e la gente cerca una scorciatoia per provare a migliorare la propria vita. Queste scorciatoie però, molto spesso portano al baratro, alla morte.
E’ qui che Carlos prende la prima decisione improbabile della sua vita. Dice no alla droga e alla criminalità, si concentra su quell’oggetto sferico. Una scelta difficile, coraggiosa, ma questa è solo la prima delle tante. I primi anni di vita del ragazzo sono allucinanti. A soli tre mesi la madre decide di abbandonarlo, a dieci mesi gli cade sul viso un bollitore pieno di acqua bollente. Viene portato in ospedale avvolto in una coperta di nylon, la quale sciogliendosi peggiora la situazione portando le ustioni dal primo al secondo grado. Gli effetti di quell’incidente sono ancora ben visibili su volto, collo e petto di Carlitos.
Dopo essersi ripreso dalla disavventura, sono gli zii materni a prendersi cura di lui; intanto il bambino cresce e all’età di cinque anni il padre biologico, che non lo aveva mai riconosciuto, viene ucciso in una sparatoria. Una strada in salita la vita del ragazzo, ma con una pendenza di quelle impossibili. Carlos non è uno di quelli che ha paura, mette giù la testa e corre. Cosa che farà per tutta la vita.
La sua carriera calcistica incomincia negli All Boys, dove disputa gli anni delle giovanili. Il suo talento non passa inosservato e gli scout del Boca Juniors si accorgono subito di lui. Qui succede qualcosa di particolare, il Boca vuole il ragazzo, ma gli All Boys non sono disposti a cederlo. Allora la società degli Xeneizes studia un piano a tavolino. Chiede alla famiglia del ragazzo di cambiargli cognome. Si passa così da Carlos Martinez (cognome del padre) a Carlos Tévez(cognome della madre). L’impresa riesce, il sogno del ragazzo si realizza. Ora potrà giocare per i suoi colori, per la sua amata squadra. Dopo quattro anni passati nelle giovanili, debutta in prima squadra. Dal 2001 al 2004 è decisivo nel scrivere una delle pagine più importanti della storia del club. Con il Boca nel 2003 vince il campionato di Apertura, la Copa Libertadores (segnando in finale contro il Santos) e la Coppa Intercontinentale ai danni del Milan. L’anno successivo vince la Copa Sudamericana, in un anno vince tutto quello che si può vincere in Sud America. Sia nel 2003 che nel 2004 viene premiato con il pallone d’oro sudamericano.
Proprio nel 2004 arriva un’altra scelta inattendibile, Tévez ha soli vent’anni, ma è già un calciatore affermato. Si pensa che la sua storia d’amore con la Bombonera sia destinata a durare per anni e invece…
il ragazzo decide di andare a giocare per il Corinthians, sì decide di andare a giocare in Brasile. Un argentino che prende una decisione del genere fa discutere entrambi i paesi per mesi interi. Come se non bastasse la scelta al quanto strana, a far parlare è anche il prezzo del cartellino, qualcosa come venti milioni di dollari, il trasferimento più importante per un club sudamericano. Un costo che obbliga il Timão a chiedere aiuto ad un gruppo finanziario esterno al mondo del pallone. Gli altri parlano e lui si concentra sul campo. Dopo un’accoglienza titubante da parte dei tifosi, Carlos riesce dopo poche partite a conquistare il cuore della gente. Non riesce a bissare però i trofei vinti con il Boca, ma anche qui diventa il calciatore del popolo. Vince per il terzo anno consecutivo il pallone d’oro sudamericano.
Il 2006 è l’anno di un’altra decisione poco probabile, l’argentino sbarca in Europa, precisamente a Londra per vestire la maglia del West Ham. Per quanto la Premier League possa essere considerata il miglior campionato d’Europa, per un argentino gli inglesi sono e resteranno sempre i nemici della guerra per le Malvinas. Inoltre la scelta di giocare per gli Hammers, non proprio una squadra di primo livello, è al quanto strana per un calciatore che a ventidue anni è una stella affermata.
L’inizio è complicato, Alan Pardew lo schiera come fascia sinistra e il suo rendimento ne risente. La squadra va male e Carlitos non riesce a dare il suo contributo. A metà stagione Pardew viene esonerato e al suo posto arriva Alan Curbishey, il quale dopo aver lasciato l’argentino per qualche partita in panchina, decide di utilizzarlo come seconda punta. Scelta che si rivela decisiva per il raggiungimento di una salvezza insperata. E’ proprio un suo gol, nell’ultima gara contro il Manchester United, a salvare la squadra. Sono proprio i red devils, ai quali Carlitos ha segnato il suo primo gol importante e decisivo in Premier, ad acquistarlo nell’estate del 2007. E’ Sir Alex Ferguson a volerlo fortemente e la scelta ripaga pianamente il tecnico scozzese. Quella stagione il Manchester si aggiudica la Premier e la Champions League, nella finale tutta inglese a Mosca contro il Chelsea. Carlos segna il primo rigore di quella serie infinita. Anche la stagione successiva inizia nel verso giusto, la vittoria della Community Shield e il mondiale per club. Pure a Manchester il rapporto con i tifosi è ottimo, ma con Ferguson le cose iniziano a peggiorare. L’argentino viene impiegato sempre meno, nonostante le sue prestazioni siano buone. In una partita di Carling Cup segna ben quattro reti, permettendo alla sua squadra di vincere per quattro a zero. L’allenatore definì la prestazione di Tévez allo stesso livello di quella dei suo compagni. Lascia l’Old Trafford salutato dall’ovazione dei tifosi e prende un’altra scelta discutibile.
Non si allontana di molto, solo di circa sette chilometri, la sua nova casa è l’Etihad Stadium. Dai red devils ai Citizens altra decisione forte, uno smacco nei confronti di Ferguson. Nel dicembre dello stesso anno sulla panchina del City si siede Roberto Mancini. Tra i due inizialmente c’è una forte intesa, l’allenatore italiano punta molto sull’argentino, dandogli anche la fascia di capitano e il ragazzo naturalmente non delude le attese. Ancora una volta riesce a conquistarsi l’amore dei tifosi, ma soprattutto dal tifoso più importante dei Citizens, Noel Gallagher (chitarrista degli Oasis) il quale dichiara: “Mia moglie pochi giorni fa mi ha chiesto per chi avrei votato alle prossime elezioni. Io gli ho risposto che non avrei mai buttato via il mio voto per nessuno e che avevo deciso di scrivere semplicemente ‘Tévez è Dio’ sulla scheda”.
La luna di miele anche in questo caso non dura molto, la data della rottura è il settembre del 2011, il Manchester sta perdendo a Monaco di Baviera contro il Bayern per due a zero, al sessantacinquesimo minuto Mancini dice a Tévez di iniziare a scaldarsi, ma lui si rifiuta. È subito il caso Tévez. Aguero raccontò l’episodio: “Ero accanto a Carlitos nello spogliatoio. Mancini era incazzato e ha cominciato a gridare. A un certo punto, gli ha detto di tornarsene a casa in Argentina. Io credevo che ce l’avesse anche con me. Mi sono detto: “Anch’io? Va bene, così posso passare qualche giorno di vacanza con la famiglia…”. Il giorno dopo, Carlitos era a Buenos Aires. Non l’abbiamo più visto per i successivi quattro mesi”.
Mancini lo scarica immediatamente e pure i tifosi. Dopo quattro mesi passati in Argentina, nei quali il ragazzo rischia di smettere di giocare e nei quali gli viene affibbiata la fama da bad boy, ritorna in tempo per vincere la Premier, all’ultimo secondo dell’ultima partita contro i Queens Park Rangers, scavalcando proprio i rivali dello United. Veste la maglia azzurra per un anno ancora, nell’estate del 2013 si trasferisce a Torino, la Juventus ha finalmente trovato il top player di cui ha bisogno.
Anche in questo caso Tévez fa una scelta incredibile. Decide di prendersi il numero dieci. In questo caso non è un semplice numero, perché quella maglia era stata vestita per diciassette anni consecutivi da un certo Alessandro Del Piero, dopo un anno in cui nessuno aveva avuto il coraggio di prendersela, arriva Carlitos e come se niente fosse decide di mettersi quel numero sulle spalle. Fa quello che ha sempre fatto nella sua carriera, lascia parlare gli altri, lui abbassa la testa e corre. Nel calcio italiano il suo impatto è devastante, fa capire subito a tutti che l’aggettivo di bad boy è un’invenzione dei giornalisti. Si allena, si impegna, si sacrifica, mai una parola fuori posto, mai un comportamento fuori dagli schemi. Alle sue grandi doti di calciatore aggiunge la maturità acquisita in tutti questi anni e ne viene fuori un vero e proprio tornado che travolge la serie A. Incontenibile per le difese italiane, enorme la sua personalità, se paragonata ad un calcio, quello italiano, in cui ci si preoccupa molto a mantenere la propria posizione e a non prendersi rischi. Lui si prende i rischi, calcia, dribbla, inventa e tutto viene premiato. Due stagioni in bianconero e due campionati, diciannove gol nel primo anno e venti nel secondo. Vince anche la coppa Italia e la Supercoppa Italiana. Sfiora la Champions League nel maggio 2015. Nella finale persa contro il Barcellona, l’argentino avrebbe potuto mandare in un’altra direzione la partita. Dopo il pareggio di Morata, Tévez ha un’ottima opportunità per ribaltare il risultato, ma da un’ottima posizione, a pochi metri fuori dall’area, calcia alto. Ha segnato gol bellissimi con la maglia bianconera, ma quello che più mi è rimasto impresso è il gol alla Lazio nella prima stagione.
Un semplice tocco di esterno che lascia sul posto Cana, poi da fuori area la piazza di piatto all’angolino. Come per dire, “non mi stanco neanche di calciare forte, valla a prendere se ci riesci”. Si dice che Cana lo stia ancora cercando, qualcuno lo avvisi che Tévez è in Argentina adesso.
Nonostante l’ottima prima stagione con la Juventus, l’argentino non venne convocato per i mondiali in Brasile. Una decisione che ha fatto discutere, la quale però era prevedibile, dato che il ragazzo non veniva convocato dal 2011.
La sua carriera con la maglia dell’Argentina era iniziata più che bene, nel 2004 aveva vinto l’oro nelle olimpiadi di Atene, affermandosi come capocannoniere. Poi però non molto, i due mondiali del 2006 e del 2010 non sono di certo da ricordare e dal 2011 più niente. Molto può essere dovuto anche alla presenza di un certo Lionel Messi, che comunque in patria è meno amato di Carlitos. Il motivo è semplice, Tévez ha giocato in Argentina e ha vinto tutto, Messi avrà anche vinto tutto in Europa, ma in Argentina non ha fatto niente. Questo è quello che pensano gli argentini. Per i giovani il modello da seguire è Tévez, soprattutto per la caparbietà che ha avuto nel non mollare mai.
Carlos è ”el judador del pueblo”, in molti argentini sono convinti che la nazionale non abbia vinto il mondiale passato perché non c’era Tévez. Se ci fosse stato, sarebbe finita in maniera diversa.
Nonostante sia stato descritto come un ragazzo dal carattere difficile, in campo si è sempre comportato da professionista. Corre, si impegna, lotta, combatte, non tira dietro la gamba, rincorre gli avversari, si mette sempre a disposizione della squadra. Un attaccante per il quale ogni allenatore farebbe carte false. A tutta questa dedizione bisogna aggiungere una tecnica sopraffina, da buon argentino non poteva essere altrimenti. Possiamo considerarlo una seconda punta, gli è sempre piaciuto partire da lontano, se c’è da saltare due o tre avversari di fila non si fa problemi. Molti dei suoi gol, sono arrivati partendo da sinistra per poi accentrarsi e scaricare tiri che in molti casi erano dei missili, ma non sdegnava anche a conclusioni precise. Da segnalare la sua capacità di calciare da fermo e dare alla palla una forza e una velocità incredibile, uno su tutti il gol al Borussia Dortmund in Champions League.
Con il proseguire degli anni si è ritagliato anche il ruolo da leader, alla Juventus lo ha incarnato alla perfezione. Fuori dal campo, in allenamento e in partita. A confermarlo anche le dichiarazioni di Alvaro Morata : “Quello che impressiona di Tévez il fatto che lui non avrebbe bisogno di correre così tanto, di metterci sempre quella cattiveria e quell’impegno, potrebbe anche non difendere come fa lui, eppure lo fa! Lui è un fenomeno che gioca con l’attitudine di un esordiente”.
Dopo due anni di bianconero ha salutato tutti ed è tornato dove il suo cuore gli ha sempre detto di andare, a casa sua, alla Bombonera. Accolto come si accoglie un eroe, è stato applaudito dalla sua gente e dall’inimitabile numero diéz, Diego Armando Maradona.
Gioca, segna e fa vincere subito il Boca. Gli Xeneizes vincono la Primera Division e pochi giorni dopo la Copa Argentina. A Febbraio saranno trentadue candeline per Carlos, avrebbe potuto continuare ancora a giocare in Europa, ma saranno gli argentini a goderselo dal vivo per i prossimi anni.
Con tutti i soldi guadagnati durante la carriera avrebbe potuto cancellare quella cicatrice e migliorare il suo aspetto esteriore, invece ha deciso di mantenerla. Il messaggio che ha ripetuto ad ogni intervista è che secondo lui l’uomo è bello per quello che ha dentro e non per quello che è fuori.
La sua terra, la sua gente sono state le costanti della sua carriera. Ad ogni gol ha mostrato la maglia con le dediche verso il suo barrio. Perché Carlitos lo sa che non se fosse nato lì, se non fosse cresciuto rischiando la vita, se non avesse patito la povertà, non sarebbe mai diventato il calciatore che è.
“Sono cresciuto nel mio barrio e ho l’essenza del barrio. Nelle villas si vive con gli stessi codici, la stessa gente, la stessa sofferenza, la stessa allegria”.
Ha giocato in due continenti, in quattro stati, in sei squadre diverse, eppure non ha saputo fare altro che vincere. Si è sempre preso l’amore dei tifosi, ovunque sia andato, perché uno così non puoi fare altro che amarlo. Può anche sbagliare, ma si fa perdonare perché rincorre subito l’avversario. Sempre a testa bassa, sempre concentrato, il calcio gli ha dato tanto, ma lui non si è mai fermato un attimo a godersi i soldi e la fama. Ha continuato a correre e a vincere.
E’ riuscito a portare la primavera nel suo barrio, ha portato la speranza, ha dimostrato che anche se nasci a Fuerte Apache puoi diventare qualcuno. Ora tutti i ragazzini sognano di diventare come Carlos Tévez.
L’eroe dei due mondi, l’eroe vestito da calciatore.
Articolo di: Gezim Qadraku
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