Sor Carletto, cane sciolto e marchigiano d’adozione


“Sono sempre stato un cane sciolto. Avanti tutta, come un navigatore solitario. Mai avuto padrini, né sponsor. Mai fatto parte di lobby di potenti dirigenti, mai goduto del favore di giornalisti condiscendenti o di raccomandazioni. Se ho ottenuto qualcosa lo devo a me stesso, alla mia determinazione e alla passione che ho messo nella mia carriera. E sono orgoglioso di essere un grande professionista, magari non un grande allenatore, ma certamente un professionista e un uomo perbene.”

Poche parole che bastano per immaginare una figura ingombrante come quella del romanaccio Carlo Mazzone, diventato Sor Carletto, un marchigiano d’adozione. Icona di se stesso, ricordato ancora oggi per le sue perle sportive e profane.

Mazzone, un amore al sapore di olive ascolane

Dopo le esperienze da giocatore con Roma e Spal, Mazzone incontra l’Ascoli per trascorrere insieme 9 anni sul terreno di gioco, molti dei quali con la fascia bianconera da capitano al braccio.  
Nel ‘68 il presidente Rozzi decide di affidargli le chiavi della prima squadra in sostituzione di Malvasi, l’anno seguente di Capello e ancora dopo di Eliani, portando il Picchio a ottenere due promozioni in tre anni, dalla C alla A.
Ad Ascoli tornerà negli anni ottanta con le sue salvezze e Sor Carletto rimarrà per sempre nel cuore di quei marchigiani dall’animo bianconero.

Omaggio dell’Ascoli a Mazzone per i suoi 80 anni

Mazzone, l’allenatore di talenti

In carriera è stato l’allenatore dei talenti. Ha scoperto e lanciato personaggi come Francesco Totti con la prima squadra della Roma.
Nel suo Brescia ha avuto la “semplice” idea di cambiare posizione ad Andrea Pirlo, facendolo passare a regista di centrocampo. Beh, oggi sappiamo tutti il risultato di questo esperimento tattico. A dimostrazione della crescita nella gestione dei talenti, nel 2001 il presidente Corioni decide di arruolare tra le rondinelle di Carletto uno che di nome fa Pep e di cognome Guardiola, avendo oltretutto già in squadra un numero 10 associato al cognome Baggio. Per Mazzone, Brescia ha significato crescere ancora, staccandosi di dosso l’etichetta di difensivista, per mostrare alla gente tutto lo spettacolo del suo calcio “sanguigno”.

Baggio, Guardiola, Mazzone al Brescia

Mazzone, l’uomo della provincia

Carletto è l’allenatore che ad oggi detiene il record di presenze sulle panchine della massima serie: 795 ottenute con Ascoli, Fiorentina, Cagliari, Lecce, Napoli, Roma, Bologna, Brescia, Perugia, Livorno e Catanzaro. Sulla sua bacheca ci sono titoli che oggi non esistono più come la Coppa di Lega vinta con la Fiorentina nel ‘75 o la Coppa Intertoto con il Bologna nel ‘88. Coppe che ci fanno tornare indietro nel tempo, quando il calcio non era solo uno spettacolo da gustare sul divano ma una battaglia continua da vivere sugli spalti. I suoi scudetti si chiamano salvezze e promozioni in piazze dove la Serie A significava vincere al totocalcio (giusto per restare in tema amarcord), provincia in cui Carletto sapeva maneggiare le sue squadre per difendere e ferire in contropiede, anche con fisicità un filo eccessiva, quella che Mazzone conosceva alla perfezione.

Un allenatore che rispondeva così alle domande da pre-derby Roma-Lazio: “Guardi, uno che ha fatto Ascoli-Sambenedettese credo che, sul piano dell’intensità emozionale, abbia provato tutto” aveva capito tutto del calcio, perché quei derby di provincia, in quegli anni, di scontato non avevano nulla e c’era poco da star tranquilli, perché lo spettacolo da tv era di ben altro stile.

Dicevano Mazzone è il Trapattoni dei poveri. Rispondevo: amici miei, Trapattoni è il Mazzone dei ricchi.

Ma quanto ci manca questo Trap dei poveri? Quelle corse folli la curva, le partite a pin ponne e quel suo calcio sanguigno. Ti vogliamo bene Carlè.

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