Ricordo che, quando ero piccolo, non ero un grande fan del tennis pro: come spesso accade a chi pratica uno sport, mi accontentavo di giocare a tennis con una certa frequenza e cercare qua e là online i risultati degli Slam. Allora seguivo tiepidamente i risultati del Mago Guillermo Coria e di Roger Federer. Il primo, terraiolo doc, era bravo ad attaccare sulla terra e giocava sulla riga di fondo e mi piaceva la sua donna, il secondo già non aveva bisogno di una presentazioni. Sono due tennisti con uno stile di gioco estremamente diverso, ma con una certa propensione all’attacco (Coria venne battezzato “Coriandolo” da Clerici per la sua abilità nel farsi trovare a fondo e a rete con grande velocità).
Estate 2004. Mi stavo riprendendo dalla finale del Roland Garros persa da Coria contro Gaston Gaudio: il mio beniamino era avanti due set a zero ma causa dei crampi e la tenacia del suo avversario finì per perdere 8-6 al quinto.
Stava per iniziare Wimbledon e allora decisi di guardare Federer, sapevo già tutto di lui, di come aveva vinto Wimbledon e Australian Open (contro Marat Safin! Un altro bel matto), ma ammetto di non aver mai visto fino ad allora un suo match. Seguii tutto il torneo e rimasi incantato dal gioco di Federer; così pulito, così classico tra diritto e rovescio, non sudava nemmeno, ma soprattutto quando giocava non lasciava trasparire nessuna emozione. Nessuna, qualche come on, qualche occhiata al proprio angolo, ma un viso imperturbabile come per dire “ora sono in campo, sto giocando, ci sono io, c’è il mio avversario, c’è la pallina”. Pian piano mi son lasciato catturare dal suo gioco e da come colpiva il diritto, sfuggiva anche alle telecamere che non se lo aspettavano già a rete. Quel torneo, Wimbledon 2004, fu la consacrazione per me del mio idolo Roger Federer, avevo trovato chi mi faceva veramente sognare. Non dimenticai Coria, ovviamente, ma non fu più la stessa cosa -come quando stai con una ragazza e blablabla, ma poi conosci quella che ti piace fisicamente e ti prende di testa- non ho tradito Coria, è lui che si è lasciato andare.
Roger Federer è un tennista che prima di tutto ha imparato a perdere, ha imparato che se non sai perdere difficilmente sarai continuo al vertice. Ha cavalcato (e a tratti dominato) l’era post- Sampras, l’era Federer ovviamente, l’era Nadal e l’era Djokovic. Tutti i coach che ha avuto sono stati unanimamente d’accordo: non puoi insegnargli nulla, puoi solo dargli dei consigli tattici.
In campo gioca da manuale del tennis, fuori dal campo è marito e padre. I suoi successi fuori e dentro al rettangolo lo hanno dipinto come il più grande della storia, ma specialmente io adoro la furia agonistica interiore. A differenza di Djokovic e Murray, la sua fame di gloria non ha davvero limiti, è paragonabile solo a quella di Nadal che però è molto più espressivo. La calma apparente con cui gioca è la chiave, reprime le emozioni lasciandosi andare solo a fine match (vedi tutte le finali slam vinte e… quelle perse).
Lo scorso anno ha preso una decisione soffertissima, abbandonando il circuito per sei mesi e quest’anno (da testa di serie numero 17, come fu Sampras agli US Open vinti nel 2002) al primo torneo ufficiale, ha raggiunto la finale agli Australian Open e ha trovato nuovamente Nadal. Vincendo ha dimostrato una volta in più quanto contino gli stimoli, la fame di affermazione, la voglia di non arrendersi quando ormai non c’è un limite che non hai superato.
Roger Federer è il simbolo di chi non si arrende al destino.
Cesare Novazzi