Oscar Lopez (Barcellona U19): "Lamine Yamal ha un talento innato. A 15 anni impressionava contro i 20enni. Anche in Serie A c'è un ex Barça che diventerà un top!"

Da talento precoce a punto fermo del Barça: Oscar López, ex allenatore e guida nella Masia, racconta lo sviluppo mentale e calcistico del gioiello blaugrana.
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15/07/2025 • 11:40
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( Ultimo aggiornamento : 16/07/2025 • 09:00)
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Pochi giorni fa Lamine Yamal è diventato maggiorenne, lo sguardo non può che andare oltre i dribbling, i gol e i numeri: parliamo infatti di un calciatore che, a 18 anni appena compiuti, ha già vinto un Europeo, due campionati spagnoli, una Coppa del Re, una Supercoppa, e ha messo in bacheca premi individuali come il Golden Boy, il Trofeo Kopa, il titolo di miglior giovane dell’Europeo 2024, l’ingresso nell’All Star Team del torneo, un Globe Soccer Awards da emergente dell’anno, la presenza nella Squadra dell’anno 2024 e il titolo di capocannoniere della Supercoppa 2025.

 

Però, dietro a tutto questo, c’è un percorso. Una costruzione lenta, meticolosa, fatta di scelte, mentalità e contesto. Dal modo in cui un ragazzo di soli 15 anni affrontava uomini di 20, fino al peso – non solo simbolico – della Masia. Ma anche formazione, equilibrio emotivo, giovani che esplodono e altri che sorprendono tardi. E poi Messi, Ronaldinho, Simone Inzaghi, Thiago Motta, l’Italia, i settori giovanili, la fiducia e il coraggio. Di questo e altro abbiamo parlato con Oscar López, ex calciatore cresciuto nel Barça, poi allenatore, e guida fondamentale per il talento  attualmente più luminoso d’Europa.

Oscar, tu hai allenato Yamal prima che diventasse il Lamine che tutti conosciamo. Ora compie 18 anni: che tipo di ragazzo sta diventando, al di là del fenomeno in campo?

"Lamine è un giocatore giovane con un talento innato. Quando l’ho trovato due anni fa, era davvero molto giovane: doveva giocare contro compagni e squadre di vent’anni, mentre lui ne aveva solo quindici. Eppure faceva le cose più difficili in maniera facilissima. E questo è incredibile per un ragazzo così giovane, con così poca esperienza nel calcio professionistico”.

Sul suo talento non ci sono dubbi. Ora ti chiedo: che giocatore è a livello mentale? Che tipo di struttura psicologica ha, per reggere tutto questo alla sua età?

"È un giocatore molto forte di testa. Questo è importantissimo per i giovani che crescono nel mondo del calcio, perché finché sei nel settore giovanile, nei cadetti, nelle categorie inferiori, è tutto relativamente facile. Ma quando fai il salto nel mondo professionistico, lì serve davvero una testa forte. È un ambiente dove tutto ha un prezzo, è tutto 'caro', e lui quella forza ce l’ha”.

Un anno fa ci si chiedeva se potesse vincere un Pallone d’Oro. Oggi, la vera domanda è: quanti può vincerne? Tu che l’hai visto crescere, hai mai avuto dubbi o hai capito subito che era un predestinato?

"Io penso che non abbia fatto tutto da solo. Tutti sappiamo che il calcio è costituito da tanti fattori: parlo dei compagni nel settore giovanile, Flick che ha dato alla squadra una verticalità che al Barça mancava da anni. Giocatori come Lewandowski, Raphinha, tutti quelli già affermati nel calcio professionistico fanno un gioco di squadra. E questo ha aiutato i giovani ad arrivare in prima squadra e a diventare forti, come Casadó, Cubarsí, Fermín. Trovarsi al posto giusto, nel momento giusto, è fondamentale. Lamine è arrivato in prima squadra nel momento giusto, quando doveva arrivarci, per tutto quello che aveva già fatto”.

Nella giovane carriera di Yamal, l’Europeo con la Spagna sembra averlo trasformato: è cresciuto anche fuori dal campo, si è responsabilizzato, si è fatto uomo. Quanto ha contato, secondo te, l’ambiente della nazionale per questa accelerazione nella sua maturità?

"Penso che tutto ciò che sta succedendo attorno a Lamine – la nazionale, l’essere ormai considerato una delle grandi promesse del calcio mondiale – lo sta aiutando a crescere. Sta imparando ad avere più responsabilità, a essere un compagno di squadra, a capire il gioco, a interpretare le partite. Tutte cose che nel settore giovanile non hai, perché non c’è pressione. Tutto ciò che circonda il calcio professionistico nei giocatori come Lamine, come Messi, come Maradona, che sono 'toccati dalla bacchetta magica', li rende ancora più forti”.

Il paragone con Messi per molti è inevitabile. Tu che li conosci entrambi, vedi davvero delle affinità così profonde, tecniche o mentali? Oppure la cosa più importante è proteggerlo da questi paragoni, più che alimentarli?

"Sono due epoche diverse. Messi ha fatto tutto ciò che abbiamo visto nel calcio mondiale. Adesso è l’ora di Lamine. Però, a me non è mai piaciuto fare paragoni tra calciatori, perché ogni epoca è diversa: Maradona, Messi… sono tempi diversi. Lamine adesso si sta forgiando, come si dice qui in Spagna: 'sta dentro al fuoco'. Deve adattarsi a tutte queste situazioni. Non è tanto diverso da Maradona, però Messi ha ancora pochi anni da giocare, mentre Lamine è in un altro ruolo. L’importante è che lui sappia quando deve far giocare la squadra. Messi oggi è un paragone troppo grande. Per Lamine, credo sia meglio lasciar stare i paragoni, così potrà essere sé stesso”.

Se ti chiedessi di immaginare Yamal tra dieci anni… Dove lo vedi? Capitano del Barça? O pensi che un talento così, oggi, sia destinato a esplorare anche altri orizzonti?

"Penso che Lamine sia molto contento qui a Barcellona. Sono già sette-otto anni che è qui ed è un ragazzo molto grato al club. Lui sa quanto sia importante per la squadra, e quanto sia importante che il Barcellona resti una squadra forte a livello mondiale. È felice qui, e quando un calciatore è felice in una squadra non pensa ad andare altrove”.

Fermín, Cubarsí, Yamal… C’è la sensazione che stia nascendo una nuova era per la Masia…

"Sì, penso che ci sono stati tanti fattori che hanno reso questo Barcellona spettacolare. I ragazzi sono cresciuti piano piano, tutti insieme dalle giovanili. E poi l’arrivo di Flick, con la sua mentalità, con la buona gestione della squadra. Anche se ti dico la verità: penso che il Barça abbia vinto anche partite che non avrebbe dovuto vincere e ha vinto per fortuna. Si è allineato tutto, come spesso succede nel calcio: tutti i pianeti si sono messi in fila, uno dietro l’altro"

Alla Masia si cresce come calciatori, ma prima ancora come persone. Tu che l’hai vissuta da dentro, cosa rende quel contesto così unico e così efficace?

"È troppo importante per loro, anche per noi formatori. Penso che il calcio sia un passaggio di pochi anni, poi dopo c’è una vita davanti di cinquanta o sessant’anni, che cambia tutto. È un po’ una magia, un lavoro magico, bellissimo, perché dà piacere a tanta gente… Ma è anche pericoloso. Per noi è fondamentale che prima si formi la persona, e poi col tempo, venga il calciatore”.

Proprio alla Masia ci sono delle regole ben precise. Si dice che ci siano persino delle parole quasi vietate, come “nemico”, “noia”, “conformismo”. È davvero così? E se sì, ce lo spieghi meglio?

"Non è così rigido e così 'puro': alla Masia non parliamo tanto delle parole che non si devono dire, quanto di quelle che si devono dire. Questa è la via per arrivare ad essere professionisti”.

Un altro ragazzo che conosci bene de La Masia è Juan Miranda, oggi al Bologna. Dove può arrivare secondo te?

"Miranda è un grande terzino sinistro. È un giocatore con una mentalità forte, ha una buona corsa sulla fascia sinistra, è forte difensivamente, ha una buona conduzione, buoni cross… Non ha limiti di crescita, penso che farà strada in Italia, perché è forte fisicamente, è alto, è solido. Il terzino sinistro, in certe squadre, è un ruolo un po’ trascurato, a volte manca. È un tipo alla Di Marco, molto di corsa”.

Tra i giovani dei vivai de La Liga che stanno emergendo, e noi lo conosciamo bene, c’è Nico Paz. Cosa ti colpisce di lui e in cosa vedi potenziale per diventare un riferimento nei prossimi anni?

"Penso che sia lo stesso discorso. È un calciatore forte mentalmente, che ha la facilità di adattarsi a diversi tipi di squadra, anche a diversi tipi di campionato. Questi giocatori sono facili da adattare per un allenatore, e alla fine è la squadra che beneficia di calciatori così”.

Tu hai giocato con Messi, ma anche con Ronaldinho, Iniesta, Xavi… Com’è stato vivere in uno spogliatoio del genere? E cosa ti ha lasciato quell’esperienza, oggi che sei tu a formare i giovani?

"È stato bellissimo essere compagno di Messi, di Ronaldinho, di Riquelme, di Kluivert… di tutti questi grandissimi giocatori. Anche alla Lazio, nel 2004–2005, con Paolo Di Canio, con Fernando Couto, con Liverani, con Peruzzi, Tommaso Rocchi… Giannichedda, Simone Inzaghi. Tutti questi giocatori, alla fine, sono grandissimi e ti lasciano sempre un’essenza, una mentalità forte, la voglia di lavorare, l’interpretazione del gioco, della partita. Ma soprattutto ti lasciano questa mentalità forte per affrontare la difficoltà. E questo è quello che io, con Lamine, ho sempre cercato di inculcare. Perché quando ho avuto Lamine il primo anno – due anni fa – lui era già tecnicamente geniale, tatticamente molto buono… Allora io mi sono chiesto: cosa posso dargli io, in quel poco tempo che lo alleno, se poi va subito in prima squadra? E ho pensato a questo: la mentalità forte. Il calciatore deve avere sempre un equilibrio mentale, psicologico, emotivo. Non è che se fai un gol vai in alto, e se sbagli un gol cadi in basso. No, ci vuole sempre una stabilità. Questo è importante nel calcio professionistico, per questi ragazzi”.

Ci racconti un aneddoto che ti è rimasto dentro con Lamine?

"Ricordo una partita contro il Maiorca, finiamo il primo tempo sotto 2 a 0. Ho cominciato a far capire a tutti il cambio tattico che volevo dare, di come dare la svolta alla partita.  Prima di rientrare in campo dico a Lamine: 'Fai ciò che vuoi, ma non smontare tutta la struttura del gioco. Vinciamo 3-2, un gol e due assist di Lamine'.

Parlando invece di Ronaldhino e Messi, c'è qualcosa di particolare che hai vissuto con loro che ti è rimasto dentro?

"Sì, ho tantissimi bei ricordi. Ricordi forti, di calcio vero, di allenamenti duri, di difficoltà. Perché quando hai 25–26 anni pensi di essere il re del mondo. Poi, quando smetti, ti tornano in mente tante cose, e capisci quanto ti abbiano segnato. Sono allenatore perché non posso più essere calciatore… ma quelle esperienze me le porto dentro”.

In Spagna a 17 anni giochi titolare al Camp Nou. In Italia, a 23 sei ancora “una scommessa”. Come ti spieghi questo ritardo culturale nel lancio dei giovani? È solo paura o mancano le strutture per proteggerli davvero?

"Guarda, secondo me è più paura… ma non dei calciatori giovani. La paura è di chi deve prendere le decisioni. Siamo nei settori giovanili per formare ragazzi che poi possano alimentare la prima squadra. E dobbiamo crederci, puntare su di loro. Ragazzi che hanno il DNA del club, la passione, la 'resilienza' e l’amore per la maglia. Quindi no, non è che i giovani non siano pronti. È che chi decide ha paura di quello che può dire la stampa, il presidente, il direttore sportivo… È più un timore esterno. Ma i giovani sono bravi. E anzi, spesso è meglio puntare su di loro. Certo, non hanno ancora esperienza, ma se non gliela dai, come fanno a crescere? Anche Ancelotti, Guardiola, Luis Enrique, Klopp hanno iniziato così, senza esperienza. Bisogna avere il coraggio di puntare sui giovani”.

Nel 2004 hai vissuto una stagione alla Lazio, proprio nel primo anno dell’era Lotito. Che calcio hai trovato in Italia? E cosa ti ha colpito di più, rispetto alla realtà spagnola?

"Ho notato che in Spagna c’è leggerezza verso i giovani. Non parlo solo del calcio, ma in generale: una specie di “non mi importa”, come se tutto fosse più leggero. E paradossalmente, questo atteggiamento in alcuni lavori – come nel calcio – può anche essere utile. Perché i ragazzi sbagliano, ma poi ti dicono: 'Ok, ho sbagliato… al prossimo tiro segno'. Non si abbattono. Hanno meno pressioni".

In quella Lazio avevi come compagno Simone Inzaghi. Cosa hai pensato guardando la sua Inter eliminare il Barcellona nella semifinale di Champions così folle, finita 4-3 a San Siro?

"Simone è diventato un grande allenatore. Era già un compagno tosto, con una mentalità chiara, sapeva cosa voleva. Ma non avrei mai pensato che diventasse un tecnico così bravo. All’Inter la sua squadra era super organizzata, giocava in modo offensivo e i giocatori si muovevano tutti insieme. Ha creato un 3-5-2 molto fluido, con i terzini che vanno su e giù, centrali che si inseriscono… Ho visto un video in cui un suo centrale arriva a fare l’attaccante, per tagliare in profondità dietro la difesa avversaria. Questo è tutto frutto della sua mentalità, della sua idea. Oggi è difficile restare sempre uguali. Gli avversari ti studiano, ti analizzano. Devi adattarti. E lui l’ha fatto benissimo”.

Nel 2022 invece hai affrontato l’Inter Primavera di Chivu in Youth League. In campo c’era anche Pio Esposito. Che impressione ti aveva fatto in quel contesto?

"Alla fine è proprio quello che dicevamo prima: i giovani cambiano in fretta. A volte vedi un ragazzo e pensi 'No, non è pronto per la prima squadra'. Passa un anno e ti sorprende. Oppure capita un infortunio in prima squadra, quel ragazzo viene chiamato su e fa benissimo. Quindi sì, è imprevedibile. Il calcio è pieno di sorprese, e devi essere sempre pronto, aperto, e con mille occhi per riconoscerle”.

Thiago Motta è stato un tuo compagno di squadra. Ti aspettavi che diventasse un allenatore con un impatto così forte?

"Sì, siamo stati compagni a Barcellona. Quando giocavamo insieme, Thiago era già uno che aveva le idee molto chiare. Però ti dico la verità: non avrei mai pensato che diventasse allenatore. Poi, sei o sette anni fa, ha iniziato la Youth League col Paris Saint-Germain. Mi ha chiamato, ci siamo sentiti, abbiamo parlato di calcio, e già lì ho capito che vedeva tutto con grande senso e profondità. Lui sa esattamente cosa vuole dalla squadra, sa trasmettere. E il lavoro che ha fatto a Bologna è stato incredibile. Una crescita chiara, netta, con idee moderne e adattabilità”.

Sempre parlando di allenatori spagnoli, Fabregas sta facendo un lavoro straordinario al Como. Dove può arrivare secondo te e che idea ti sei fatto del suo lavoro?

"Penso che Cesc stia facendo un lavoro davvero ottimo. È un allenatore che può arrivare in una squadra ancora più grande, con più nome – con tutto il rispetto per il Como. Lui viene dalla scuola Barça, dal gioco associativo, dal possesso, dal passare dal campo proprio a quello avversario con la palla, destabilizzando l’avversario. Sono concetti fondamentali nel calcio moderno. E Cesc li conosce bene, perché è stato un grandissimo calciatore, e ora sta diventando un ottimo allenatore”.

Oggi al Parma, in Serie A, è arrivato un allenatore spagnolo di 29 anni, José Cuesta. Che idea ti sei fatto di lui e cosa può portare al nostro campionato?

"È giovane, certo, ma questo succede sempre più spesso. Oggi molti allenatori sono giovani, ma sono molto preparati. Studiano tanto, osservano, imparano in fretta. José viene da un percorso importante, con Arteta, e credo che possa portare idee fresche in Serie A. Quello che conta oggi non è l’età, ma la visione, la capacità di comunicare e di creare un’identità. E lui mi sembra uno che ha tutto per fare bene”.

E tu invece ti vedi ancora a lavorare con i giovani o hai l'ambizione di guidare un club, una prima squadra?

"Mi piacerebbe fare il cambio e allenare una prima squadra ma al momento non ho ricevuto proposte".

C'è un giovane di cui non si parla ancora molto che secondo te dobbiamo iniziare a seguire?

"Marc Bernal, ha giocato solo a inizio stagione con la prima squadra perché poi si è infortunato. Non penso possa raggiungere i livelli di Messi e Lamine ma può diventare un grande centrocampista”.

Nancy Gonzalez Ruiz
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