Due scudetti, una Supercoppa, un Mondiale, un Europeo Under 21 e una medaglia olimpica: Marco Amelia è stato portiere, leader silenzioso, uomo squadra. Ha studiato Mazzone, ha vinto con Capello, Lippi e Allegri ed è stato scelto da Mourinho quando aveva deciso di smettere. Ha segnato un gol iconico in Europa, ha assaggiato la Premier League e oggi allena il Sondrio in Lega Pro. In questa intervista esclusiva ai nostri microfoni Marco si racconta a tutto tondo: il rimpianto della Roma, il sogno del grande ritorno di Pato al Milan, le riflessioni sull’azzurro e la stima per Allegri, l’allenatore che ora guida un Milan “da ricostruire partendo dalla testa”.
Tu sei ripartito dal Sondrio, con cui hai già iniziato il ritiro e la pre-season. Che ambiente hai trovato e qual è l'obiettivo stagionale?
“Ho ritrovato un ambiente che ha voglia di continuare il lavoro fatto negli ultimi sei mesi, con l’intenzione di alzare il livello da tutti i punti di vista: societario, ambientale, ma anche all’interno dello spogliatoio. L’obiettivo è quello di proseguire su quella strada che ci ha fatto fare un grandissimo girone di ritorno, e magari cercare di rimanere nelle prime sei-sette posizioni fino a marzo, come dice Allegri. Bisogna stare lì davanti in quel periodo e poi spingere nel rush finale per vedere dove si potrà arrivare. È una squadra giovane, con una buona ambizione e la voglia di far bene”.
Hai vissuto grandi allenatori nella tua carriera: Capello, Allegri, Mourinho, Gasperini... Quale ti senti più vicino oggi e cosa ti hanno lasciato in eredità per il tuo ruolo attuale di allenatore?
“Io ho avuto quasi tutti i migliori, ma anche allenatori che non hanno mai allenato nei top club e che però sono bravissimi. Devo dire che ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa che oggi mi aiuta, perché in ogni situazione che mi trovo ad affrontare, ripenso alle esperienze avute. Quando mi succede una cosa, a volte penso ad Allegri, altre a Mourinho, altre ancora a Lippi. Ho anche esempi di allenatori come Osvaldo Jaconi o Carletto Mazzone, che è il mio idolo. Io vorrei poter fare quello che ha fatto Carletto. Ho imparato tanto. Ho avuto una grande fortuna, che è stata quella di essere allenato da questi allenatori e poter avere un confronto diretto con loro. Essendo portiere, dovevo conoscere le loro richieste tecnico-tattiche per la squadra, visto che da dietro potevo aiutare i miei compagni nella disposizione in campo”.
Hai vissuto il periodo di Mourinho al Chelsea nel finale di carriera. Che tipo di allenatore è e cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
“Con Mou ho avuto questa fantastica esperienza al Chelsea. Ero il secondo più vecchio dello spogliatoio dopo John Terry, che era il capitano. Sono arrivato lì a mercato chiuso, da svincolato, per un infortunio di Courtois, e Mourinho mi ha subito responsabilizzato. Lui ha una grandissima capacità comunicativa, riesce a creare empatia con lo spogliatoio e con i giocatori. Difende il gruppo, cerca di attirare su di sé le problematiche che ci possono essere per fare in modo che i giocatori restino sereni, tranquilli, ma sappiano comunque prendersi le loro responsabilità. Ho vissuto un’esperienza straordinaria. Poi lui è andato via e ho avuto la fortuna di conoscere anche Guus Hiddink, poi è arrivato Conte. Devo ringraziare Josè, perché mi ha permesso di conoscere la Premier League, di capire come funziona, di scoprire il mondo fantastico del Chelsea. Soprattutto, ho avuto la possibilità di vivere da vicino come allenatori come lui, che hanno vinto tutto, gestiscono spogliatoio e ambiente, che diventano fondamentali per ottenere risultati”.
Hai fatto parte dello spogliatoio dell’Italia del 2006. Che gruppo era e qual è stato il tuo ruolo al suo interno?
“Un gruppo fantastico. Va dato grande merito a mister Lippi per aver scelto i convocati in modo tale da avere un gruppo di uomini, che sapessero sopportarsi e supportarsi, soprattutto dopo quello che era successo con Calciopoli. Era uno spogliatoio meraviglioso, dove si stava bene, si faceva tutto l’uno per l’altro, si rideva, si scherzava, ma ci si allenava alla grande. C’era un grande staff, un grande Mister. Tutto questo ci ha permesso di arrivare fino in fondo, alla finale, e alzare la Coppa del Mondo. Anche lì capisci quanto un allenatore deve saper gestire le sue risorse umane, i giocatori, lo staff e tutte le figure che gravitano intorno alla squadra. Lippi, da questo punto di vista, è stato un fenomeno. Un vero leader. Ci ha trascinato con le sue parole, con le sue idee, ci ha fatto credere nella vittoria fin dal primo giorno, quando magari dall’esterno non sembrava possibile. Le altre nazionali erano forti, ma lui ci ha fatto entrare in testa che potevamo farcela. Quel gruppo è stato fortissimo moralmente e caratterialmente, si è supportato fino a quando Fabio ha alzato la Coppa”.
A proposito di finale: hai voglia di ripercorrere dalla tua prospettiva la testata di Zidane a Materazzi?
“Noi subito non l’abbiamo vista. La testata di Zizou a Marco l’abbiamo vista solo dopo, sullo schermo della TV che era lì a bordo campo, tra le panchine. Quella finale del 2006 è stata la prima partita in cui, di fatto, c’è stato il VAR. Il primo episodio di VAR nella storia del calcio è proprio la testata di Zidane a Materazzi, perché non se n’era accorto nessuno, neanche Buffon, che era lì vicino a loro e quando parlava con l’arbitro faceva il gesto della gomitata. Quando l’abbiamo rivista in video tra le panchine, come quando si è avvicinato l’arbitro a rivederla, siamo rimasti tutti sorpresi, perché conosciamo tutti Zizou. Sappiamo che è un giocatore straordinario, forse tra i più forti della storia del calcio, ma sappiamo anche che è un ragazzo eccezionale, un top, e siamo rimasti veramente sorpresi. Nonostante tutto ha lasciato la Francia in dieci e questo ci ha agevolati, perché la Francia era forte, ma soprattutto in quel periodo Zizou era imprendibile. Stava giocando il suo ultimo Mondiale, le sue ultime partite, e fino a quel momento aveva fatto un Mondiale stratosferico. La sua espulsione ci ha sicuramente un po’ agevolato per il finale di partita”.
Hai parlato della scelta di uomini che sapessero “supportarsi e sopportarsi”. Credi che oggi manchi questa dimensione alla Nazionale?
“Io credo che la scelta di oggi della Federazione, di affidare la panchina del CT a Gattuso, sia proprio per riportare questo senso di appartenenza alla maglia azzurra, ma anche il senso di conquistarsela. Secondo me negli ultimi anni la maglia azzurra a volte è stata un po’ regalata. Abbiamo visto giocatori che non avevano ancora mai giocato in Serie A essere convocati, o chi aveva fatto poche partite essere convocato, o giovani integrati troppo presto alla maglia azzurra. Questo, secondo me, ha tolto un po’ quella magia dell’essere convocato in Nazionale maggiore, come sognavamo noi ai nostri tempi. Oggi Rino ha questo compito, insieme a Gigi Buffon, di trasmettere il senso di appartenenza alla maglia azzurra, ma anche di fare in modo che, quando si torna nel club, si abbia l’identità di essere un giocatore della Nazionale. Bisogna quindi dare continuità a prestazioni, a comportamenti, ad atteggiamenti, per potersi poi riconfermare. E soprattutto, chi vuole giocare con la Nazionale deve sapere che deve seguire una linea nell’essere professionista, nell’essere continuo come calciatore, da tutti i punti di vista, per poter ambire a essere convocato dal nostro CT. E questo, devo dire, un pochino si è perso nell’ultimo periodo. I giocatori, secondo me, non sono stati molto agevolati da questa linea che è stata seguita, e un po’ hanno perso l’amore e l’attaccamento al senso di appartenenza che invece ci deve essere nel vestire la maglia della propria Nazionale”.
Nel 2001 hai vissuto lo scudetto con la Roma di Capello: ce lo racconti?
“Io mi ritengo fortunato perché, in quasi tutti i gruppi in cui ho giocato, alla fine ho sempre tirato fuori qualche vittoria. Ero in prima squadra alla Roma: l’anno prima la Lazio aveva vinto lo scudetto, e noi avevamo l’obiettivo di cambiare questo stato emotivo che c’era sulla città, nei tifosi. Fabio Capello è stato un allenatore fenomenale. Io ero giovane, avevo 18 anni, però facevo parte dello spogliatoio della prima squadra, tifoso della Roma, insieme a quei campioni che poi furono comprati: arrivò Batistuta, arrivò anche Emerson – che poi si fece male subito – comprarono Walter Samuel, un difensore di 23 anni che sembrava un veterano. È stato molto bello vivere quello spogliatoio, è stato molto bello vivere con quei campioni, con Totti, Montella, Delvecchio, Cafu, Antonio Carlos, Tommasi, Di Francesco… Una squadra incredibile. Una squadra che, unita anche lì – se vado a ripercorrere le vittorie che ho fatto – si rispecchiava in quei valori che io ho ritrovato poi sia nel gruppo del Mondiale, sia nel gruppo del Milan, e anche in quello del Livorno in Serie C, dove vincemmo il campionato”.
A proposito di Milan, che allenatore è Allegri?
“Allegri è un allenatore molto pragmatico. Lui sa che se allena il Cagliari, il Sassuolo, squadre di quel tipo, deve lavorare per la crescita del gruppo e per ottenere il risultato finale, che in quel caso è l’obiettivo della salvezza e la crescita dei giocatori, alzando l’asticella del club. Ma se poi va ad allenare il Milan o la Juventus, come è successo, il suo obiettivo è vincere. C’è poco da fare. Lui lo sa: se alleno il Milan, devo vincere; devo fare in modo che la squadra vinca. Se alleno la Juventus, è la stessa cosa. Quindi lui è molto pragmatico in questo senso. Si va alla ricerca di tutto quello che serve per ottenere i tre punti in ogni singola partita. Da questo punto di vista, credo che sia migliorato di anno in anno”.
E come si trasmette quella mentalità a un giocatore e a uno spogliatoio?
“Nel singolo giocatore col dialogo one-to-one. Max ne faceva molti di questi dialoghi. Cercava di instaurare con i giocatori un rapporto prima di tutto professionale, a cui lui teneva molto, per trasmettere che le sue idee potevano aiutare i giocatori stessi a rendere meglio. È naturale che, per quanto riguarda la mia esperienza, in quel Milan c’erano campioni assoluti. E secondo me, in quel Milan, lui ha imparato molto proprio da questi campioni a diventare allenatore, attraverso il confronto con i singoli. Quando si è confrontato con Ibra, Seedorf, Thiago Silva, Nesta, Abbiati, con quei giocatori lì, Max aveva tutto da imparare su come un allenatore gestisce uno spogliatoio importante come quello del Milan. E poi, per quanto riguarda il gruppo, è questione di credere in quello che si fa e far credere in quello che si fa, trasmettendolo con sicurezza. Con un atteggiamento che va nella direzione di dare ai giocatori la percezione che chi li guida sa perfettamente dove sta andando. E Max questo ce l’ha. Lui ha cambiato tanto. Non è uno che si è irrigidito sulle sue idee, anzi. È stato veramente molto intelligente nel cambiare. Anche se poi, nel secondo anno, abbiamo un perso lo scudetto per piccoli errori di spogliatoio, piccoli errori che poi hanno contato in termini di risultato. Eravamo forse troppo sicuri di vincere anche il secondo scudetto, perché a un certo punto avevamo dieci punti di vantaggio sulla Juventus che doveva ancora recuperare delle partite. E ne abbiamo persi sette pareggiando col Catania, perdendo con la Fiorentina e pareggiando col Bologna. Poi la Juve ci ha ripreso. Forse in quel periodo ci siamo un po’ persi in piccoli comportamenti. Ci siamo dimenticati che l’obiettivo importante era vincere. E parliamo di Catania, Fiorentina e Bologna: tre squadre che lottavano per non retrocedere, erano davvero nelle ultime tre o quattro posizioni in quel momento. Noi abbiamo buttato via quei sette punti di vantaggio che avevamo sulla Juventus. Però anche in questo credo che Max abbia capito tanto. E l’anno dopo siamo ripartiti cercando di rimanere in Champions, con quasi 12-13 giocatori in meno, di cui alcuni erano campioni assoluti e altri giocatori fondamentali nello spogliatoio. Quindi non è stato neanche semplice per lui”.
Hai citato Ibra, Thiago Silva, Gattuso: com’era quello spogliatoio, proprio a livello di leadership?
“Io posso assicurare al 100% – e questo lo possono confermare Leonardo o Ancelotti – che in uno spogliatoio come quello, l’allenatore c’entrava poco. È praticamente inutile entrare in uno spogliatoio dove ci sono quei personaggi. Perché da soli già risolvevano gran parte delle problematiche. C’erano delle regole che venivano seguite. Regole che quel Milan tramandava da anni: il Milan di Berlusconi, dall’85 in poi, aveva delle regole che erano state trasmesse da Baresi a Costacurta, poi da Paolo Maldini, fino ad arrivare a Gattuso e Ambrosini. E quelle sono cose importantissime, perché fanno capire subito, soprattutto ai nuovi arrivati, dove sono arrivati. Perché il Milan è un club particolare, diverso da tutti. Anche chi ha giocato nel Real Madrid o nel Barcellona lo dice. Questo era veramente bello e importante. Max sapeva quando entrare e quando dire qualcosa, e lì devo dire che è stato anche molto intelligente. Però quando hai uno spessore di giocatori di quel calibro, che hanno valori e sanno come si gestisce uno spogliatoio, un allenatore è sicuramente agevolato”.
E di quell’Ibra hai conosciuto bene, cosa è rimasto secondo te, oggi, in questa veste dirigenziale?
“Io ancora sinceramente non ho capito quanto Zlatan abbia peso nelle decisioni che vengono prese all’interno del Milan. Perché comunque è un consulente di RedBird e non ha un ruolo tecnico diretto. Oggi c’è Igli Tare che fa il direttore sportivo, ci sono Furlani e Moncada che gestiscono la parte del mercato. Io credo che Ibra abbia voglia di incidere nel Milan, ma è ancora in una fase, tra virgolette, 'formativa'. Io spero che quest’anno, anche con l’avvento di Igli tare, Ibra possa incidere di più anche nell’aiutare i calciatori a capire dove sono. Nel come devono approcciarsi a vivere il mondo Milan, a giocare con la maglia del Milan. Che ha un peso, ma anche una responsabilità che ti lascia orgoglio, ti lascia passione. Perché il Milan è seguito da milioni e milioni di tifosi in Italia, ma in tutto il mondo è qualcosa di straordinario. Quindi spero che Ibra possa incidere un po’ di più rispetto a quello che ha fatto finora”.
Abbiamo citato Ibra, Tare, Allegri. Come vedi il Milan dei prossimi due anni? E in cosa lo vedremo cambiato già dalla prossima stagione?
“Secondo me, il Milan la prossima stagione avrà sicuramente una solidità difensiva più alta rispetto agli ultimi anni. Perché comunque nel credo di Max c’è quello di avere una squadra che sappia difendere bene, ma la fase difensiva inizia dagli attaccanti. Quindi su questo credo che ci sarà tanto lavoro da fare per Max. Perché negli ultimi anni abbiamo visto un Milan che, davanti, rispettava i valori di una squadra, di un top club che deve giocare per vincere, ma dietro un po’ soffriva: subiva troppi gol, subiva tanto e questo subire magari ha tolto un po’ di sicurezza anche alla fase difensiva della squadra. Quindi Max sicuramente in questo farà cambiamenti. L’agevolazione che ha questo Milan è che, pur avendo cambiato allenatore, ha portato uno che conosce già l’ambiente. Il tempo che solitamente un nuovo allenatore impiega per capire il mondo Milan, Max non lo deve perdere: lo sa già cosa deve fare. E quindi sicuramente, già dai primi giorni a Milanello, tutto sarà tempo guadagnato per la squadra. Perché Max la indirizzerà da subito verso una direzione ben definita, che è quella di tornare a essere protagonisti e poter puntare ai primi posti, seguendo una linea, una filosofia, e anche dando una percezione all’esterno di avere un senso di appartenenza alla maglia del Milan, al club e a tutta la sua storia”.
Per sintetizzare possiamo dire che vedremo un Leao molto cambiato?
“Vedremo un Leao molto più vicino alla porta e molto più prolifico. Credo che Max abbia l’idea di spostare Leao qualche metro più dentro, non tantissimo, ma comunque più vicino alla porta. E secondo me, così, Leao può incidere ancora di più. Oltre ai momenti in cui il Milan dovrà stare più basso — e in quelli Leao è fortissimo, perché quando ha campo aperto è imprendibile — credo che Max gli darà anche questa piccola variazione che lo renderà ancora più prolifico rispetto a quello che è stato finora. Di conseguenza diventerà anche più costante e continuo in tutto quello che i tifosi del Milan oggi richiedono a un giocatore straordinario come Rafa”.
Secondo te qual è un giocatore proprio “allegriano” dell’attuale rosa del Milan?
“Al di là dell’età, secondo me Luka Modrić. Tanti pensano al suo arrivo per lo spogliatoio, ma Modric sta bene anche per l’età che ha. E secondo me sarà importante anche a livello tecnico-tattico in campo. È un giocatore che si sposa perfettamente con l’idea che ha Max in quel ruolo. E quindi sicuramente Modric sarà importante. Poi, per il resto, i giocatori che giocano sulla trequarti possono trarre vantaggio dalla modalità di gioco che Max metterà in campo. E il Milan ha tanti attaccanti rifinitori che possono adattarsi bene, da come Max ci ha fatto vedere nel suo modo di mettere in campo le squadre”.
Si sta parlando anche dell’acquisto di un attaccante, quale attaccante vedresti bene nel suo Milan?
“Il ritorno di Pato, per me un grande amico. Pato ha 35 anni, è vero che rientra da un infortunio ed è stato fermo nell’ultimo anno, ma secondo me, a 35 anni, può ancora dare tantissimo al Milan. Potrebbe anche riportare nei tifosi quelle sensazioni degli anni in cui il Milan vinceva tanto. Sicuramente, tra i quattro attaccanti, Pato potrebbe essere utile. Tra l’altro so che in questo momento sta facendo delle cose proprio per il Milan come ambassador. Un attaccante che secondo me potrebbe far bene vicino a Leao, soprattutto nel Milan, era Retegui. Retegui poteva fare benissimo. Giocando a due insieme a Leao, poteva fare benissimo. Una delle caratteristiche che servono al Milan è sicuramente un attaccante tipo Lucca. Che purtroppo non ce ne sono tanti in circolazione. E quindi anche fare mercato, per i dirigenti del Milan, diventa un po’ complicato”.
Abbiamo parlato dell’attacco, ora andiamo dall’altra parte del campo: la tua. Parliamo di Maignan...
“Io sono contento che sia rimasto perché con Allegri allenatore, il portiere ne trae vantaggio, visto che Allegri punta molto a essere la miglior difesa. E Mike, da questo punto di vista, ha sempre fatto ottime cose. Potrà trovare sicuramente costanza di rendimento, ma anche un’agevolazione nella sensazione di essere portiere e di subire meno, di essere più solido. Questo è qualcosa che il Milan negli ultimi anni aveva un po’ perso”.
Com’è cambiato il ruolo del portiere negli ultimi anni, tra uso dei piedi e costruzione dal basso?
“Da quando non si può più prendere la palla con le mani sui retropassaggi, è cambiato il ruolo ma è cambiato proprio il calcio. È diventato un calcio più effettivo, con più minutaggio di gioco. Prima, nella difficoltà, ci si girava e si passava la palla al portiere che la prendeva con le mani e si perdeva tempo. Da quando poi si è iniziato a usare il portiere come giocatore che fa partire l’azione, che cerca i giocatori liberi, gli spazi da attaccare, è cambiato moltissimo. Il portiere oggi è molto più impegnato a livello emotivo, spreca molte più energie a livello mentale. Non deve solo essere preparato agli interventi classici — parate, uscite, letture delle profondità e tutto il resto — ma deve anche essere capace di riconoscere il gioco e fare il 'play', il ruolo che prima facevano maestri come Pirlo e De Rossi. Questo fa sprecare tante energie. Abbiamo già iniziato a vedere molti portieri che cominciano ad avere crampi non solo per disidratazione — perché sei sempre concentrato, la testa è sempre impegnata — ma anche per l’aumento dell’impegno stesso che il portiere ha durante una partita. Oggi, se prendiamo una mappa del campo, la palla viaggia per la maggior parte del tempo nella zona dell’area di rigore, dove sta il portiere perché è da lì che si costruisce tutto quello che viene fatto davanti. A me questo non piace, ti dico la verità. Secondo me, nemmeno ai tifosi. Oltre a farti perdere qualche anno di vita per i rischi che si prendono portieri e difensori, è qualcosa che spesso rallenta lo spettacolo. E il tifoso, lo spettacolo, lo vuole. Magari a livello tattico ti libera delle zone, ti fa uscire dalla pressione, ma sul piano dello spettacolo — che è il bello del calcio — forse ci si rimette qualcosa”.
Oltre a tutto il tuo palmares, sei entrato nella storia anche per quell’incredibile gol con il Livorno in Coppa UEFA…
“Un ricordo bellissimo. Io ho iniziato con il Livorno in Serie C, siamo arrivati in Serie A, ci siamo qualificati in Coppa UEFA, stavamo facendo i gironi e non dovevamo perdere quella partita. E io ero forse l’unico giocatore in campo quel giorno che era partito dalla Serie C, quindi mi ricordavo quello che avevamo passato per arrivare fino lì, in Coppa UEFA. Ho detto: 'Vado avanti', poi non è che mi sono messo a guardare il minuto, perché quando mi sono girato a vedere il tabellone segnava l’85°, e io ho segnato all’86°. Spesso, in quei momenti, non si vede salire il portiere sulle punizioni laterali o sui calci d’angolo. Invece io sono andato, perché per me poteva essere l’ultima occasione di restare agganciati a una qualificazione agli ottavi o ai quarti di Coppa UEFA. E poi è andata bene, perché nel tragitto di corsa che ho fatto per arrivare nell’area del Partizan, tutti mi dicevano che era presto, ma io non ho ascoltato nessuno, perché sono duro. E poi la palla mi è caduta in testa, ed è andata bene. Quel pareggio ci ha permesso poi di avere la possibilità di passare il turno nell’ultima partita. Ed è stata una gioia, ma una gioia vera, perché per i tifosi del Livorno… Gli abbiamo portati dalla Serie C alla Coppa UEFA, gli abbiamo fatto vivere esperienze incredibili, che sono difficili da ripetere. Essere protagonista di quel percorso è qualcosa che ti rimane a vita. Un po’ come la Coppa del Mondo”.
A proposito di ricordi: hai un momento che ti è rimasto particolarmente dentro?
“Io ho avuto un ottimo rapporto praticamente con tutti gli allenatori. Quando li incontro mi fermo a parlare, ogni tanto a qualcuno stresso un po’ la vita, gli mando qualche messaggio… Però so anche che tutti gli allenatori di livello top vengono chiamati da tremila persone, quindi non voglio essere di disturbo. Però, quando ci incontriamo, ho piacere a condividere con loro idee, pensieri. Questo per me è un motivo di crescita ulteriore. Di sicuro, il primo impatto che ho avuto con gli allenatori di prima squadra è stato con Carlo Mazzone. Fino agli ultimi anni della sua vita riuscivo ogni tanto a parlarci, un po’ chiamando casa, tramite sua moglie, un po’ tramite i nipoti. Per me è stato fantastico, perché quando ho avuto Carletto come allenatore a Livorno gli raccontavo che da ragazzino ero raccattapalle alla Roma, giocavo nelle giovanili e lui per me era un idolo. Mi ha dato tanto dal punto di vista umano, un po’ come a tutti i romani che ha allenato, Totti su tutti. Mi ha dato la consapevolezza di essere forte perché in quei sei mesi lì io sono andato in Nazionale, poi c’è stata l’esperienza del 2006. E per andare al Mondiale dovevo giocarmela con fior fior di portieri. Giocavo nel Livorno, mentre ad esempio Abbiati era alla Juventus, visto che Buffon era stato infortunato fino a maggio. Non è stato semplice. Però lui mi ha dato quella consapevolezza di potercela fare. E questo lo apprezzerò sempre. Avrò sempre un grandissimo ricordo di Carletto. Oltre a sapere di calcio in una forma incredibile, lui aveva quell’incredibile senso di rispetto che bisogna avere. Se lo confronto con tutti i migliori allenatori che ho avuto, non aveva niente di meno di loro. E se Guardiola dice che Mazzone di calcio ne sapeva, e che ha preso spunti dal suo modo di far calcio, allora stiamo parlando probabilmente di uno degli allenatori più forti della storia del calcio”.
Se potessi cambiare una sola scelta nella tua carriera, quale sarebbe?
“Ho solo un cruccio: non essere potuto tornare alla Roma. Sono andato via a 18 anni dopo lo scudetto, e nonostante ci siano stati degli approcci per tornare, non si è mai concretizzato. Tornare da protagonista con la maglia della Roma è qualcosa che mi è sempre mancato. Magari in futuro… Ho appena iniziato il mio percorso da allenatore. Spero di essere uno di quelli che un giorno siederà sulla panchina della Roma. Magari nel nuovo stadio, sarebbe meraviglioso. Anche solo di passaggio, come è stato per tanti altri allenatori… Andrebbe bene”.