Tra le pagine più belle della storia del nostro sport preferito possiamo trovare irrimediabilmente fior fior di giocate, numeri, fuoriclasse e golazi: un’enciclopedia di bellezza e stupore che da sempre pervade il nostro animo alla ricerca dell’estetica decisiva di una finta, della concretezza di un piattone aperto, o del clamore di un colpo di reni dell’estremo difensore. Nel calcio italiano, però, c’è stato un uomo che è entrato di diritto nell’immaginario collettivo per via di una partita ormai parte della sua leggenda personale, nonché di quella di milioni di tifosi in Italia. La partita in questione è Catania-Inter 3-1 del 2010, l’uomo solo al comando è invece quel grande briccone di Sulley Muntari.
Degno della rubrica di Giallappina memoria “Un Uomo, Un Perché”, Sulley Muntari è stato sempre riconosciuto per due caratteristiche principali: la delinquenza e la delinquenza. Ironie facili a parte, il calciatore ghanese ha avuto una carriera molto interessante nell’ambito della Serie A italiana: già ai tempi dell’Udinese si era proposto come mediano di rottura (a quanto pare in tutti i sensi) assolutamente decisivo, palesando una grinta enorme che a volte finiva per sfociare in interventi abbastanza duri ma sempre in buona fede. Dopo una breve esperienza inglese Muntari fu acquistato a sorpresa dall’Inter ed in maniera altrettanto sorprendente si rivelò essere tatticamente imprescindibile sia per Mancini che per Mourinho quando veniva schierato in campo: fu anche grazie alla sua nuova posizione avanzata e ad una vena offensiva raramente manifestata altrove che il ragazzo si guadagnò la stima dei tecnici nerazzurri. Muntari contribuì attivamente alla vittoria del Triplete, anche se non sempre da titolare, per poi giocare nel Sunderland, nel Milan e nell’Al Ittihad, club nel quale attualmente milita. Tante cose buone, dunque, per un giocatore spesso sanzionato a livello disciplinare ma molto utile per la squadra. Il capolavoro, però, è la poesia che il centrocampista crea al Massimino di Catania il 12 marzo del 2010. Una poesia che lo consacra ad arte.
Il minuto è l’81, Muntari viene gettato nella mischia da Beppe Baresi, secondo dello squalificato Mourinho, insieme a Pandev per cercare di vincere il match. Il risultato è di 1-1, con l’Inter che deve combattere contro una bolgia clamorosa e una squadra tignosa quale quella di Mihajlovic. Muntari ha poco tempo a disposizione: deve fare qualcosa per lasciare il segno, per diventare protagonista indelebile del match. Ci riesce, ma in modo meno convenzionale del solito. Il nostro eroe inizia la sua scalata verso la gloria: dopo 10” fallo da dietro sul Malaka Martinez. Calcio di punizione e giallo per il ghanese, che si sistema in barriera per respingere la punizione di Mascara. Il problema è che, forse credendo di essere Julio Cesar, Muntari al posto della testa ci mette il braccio: Valeri fischia rigore ed ammonisce per la seconda volta il numero 11 interista, segnandone l’uscita dal campo dopo appena 40” di gioco. L’espressione di Muntari è quella di un uomo distrutto, che ha perso ogni certezza della vita, un uomo che sa di andare incontro all’imponderabile, ovvero il cappottone dei compagni di squadra al rientro negli spogliatoi. Mascara segnerà il successivo rigore con un cucchiaio pregevole, Martinez metterà addirittura il sigillo sul match. Quella sconfitta, a conti fatti, non pregiudicò minimamente il glorioso cammino del Biscione. Tale ko, però, ha consegnato all’epica moderna l’impresa titanica di un eroe incompreso. “Tu chiamale, se vuoi, emozioni”, cantava Lucio Battisti. E in fondo saranno d’accordo anche gli interisti. D’altronde, l’incazzatura è un’emozione, no?