Neto ricorda incidente Chapecoense: la sua promessa prima dello schianto

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Era il 28 novembre 2016, il mondo del calcio e non solo veniva sconvolto dalla tragedia della Chapecoense. A 5 anni di distanza, Helio Neto, l’ultimo ad essere stato estratto dalla carcassa dell’aereo, ricorda quel giorno. Prima un incubo, poi il viaggio, la promessa fatta prima dello schianto, la tragedia e alla fine il coma e la riabilitazione.

Il suo viso era pieno di sangue. C’erano ferite sul suo corpo. Helio Neto si guarda intorno e vede che gli altri passeggeri sono morti. Riesce a uscire dall’aereo, che è stato distrutto dallo schianto. Poi si sveglia. Era solo un incubo. Qualche giorno prima del volo il giocatore si sveglia così, agitato a causa di un sogno terribile. Ma Neto non ci vuole pensare anche perché a distanza di poco tempo avrebbe dovuto prendere veramente un volo. La sua Chapecoense, infatti, avrebbe giocato per la prima volta nella finale di Copa Sudamericana contro l’Atlético Nacional. L’appuntamento era allo stadio Atanasio Girardot di Medellín.

Neto ricorda incidente Chapecoense: la sua promessa prima dello schianto

Il difensore centrale e i suoi compagni si imbarcano il ​​28 novembre 2016 su un aereo della compagnia aerea boliviana LaMia, ma non arriveranno mai a destinazione: “Non volevo viaggiare – racconta in un’intervista a El Tiempo – Ero molto spaventato. Quel giorno mi sono svegliato e ho sentito che c’era qualcosa di diverso. Quando stavo andando a prendere l’aereo ho mandato un messaggio a mia moglie chiedendole di pregare perché il sogno era tornato alla mia testa ed ero molto nervoso. Ma dovevo calmarmi, non potevo spaventare i miei compagni di squadra con quello che avevo sognato. Volevo che fossero calmi”. 

Sull’aereo, Neto riesce a mantenere la calma. È seduto nel sedile in mezzo, circondato da colleghi che non smettono di ridere e pensare alla finale. Sull’aereo ci sono 77 persone: 9 dell’equipaggio, gli altri passeggeri sono calciatori, dirigenti, giornalisti. Un paio d’ore dopo il decollo, si arrendono al sonno, fino al momento in cui viene annunciato che stavano per atterrare all’aeroporto di Rionegro ad Antioquia.

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Neto

I minuti però passano e l’aereo non raggiunge il suolo. Le luci si spengono, Neto sente che l’aereo trema e che i motori non fanno più rumore. Una situazione sicuramente anormale. Il difensore fa così una promessa. Le sue ultime parole, prima della tragedia, sono rivolte a Dio: So che sei presente. Ti chiedo di aiutarci. Se mi tieni in vita, se sopravvivo, mi dedicherò a comunicare al mondo che esisti”.

Il volo LaMia 2933 si schianta poco prima delle dieci di notte contro Cerro Gordo, a diciassette chilometri dalla pista di atterraggio di Rionegro. Solamente sei persone sopravvivono, tre i giocatori. Uno di loro è Neto, che all’epoca ha 31 anni.

Il difensore è l’ultimo ad essere salvato. Sei ore dopo l’incidente, quando i soccorsi pensavano che non ci fossero altre persone vive, un agente di polizia sente un gemito, poi lo vede. Neto non ricorda quei momenti: Ricordo bene l’incidente, ma non ricordo nulla del salvataggio. Mi ha raccontato tutto mia moglie. Mi ha detto ‘Dio è stato generoso con te, perché sei stato l’ultimo ad essere trovato’”.

Neto viene portato in ospedale all’alba ed viene tenuto in coma farmacologico per dieci giorni, con ventilazione meccanica. Tra i sopravvissuti, è quello in condizioni più critiche. 

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Al suo risveglio ricorda solo una cosa: “Mi sono svegliato e ho visto mia moglie, mio ​​padre, mio ​​fratello, un mio grande amico, un pastore di una chiesa in Brasile. Ho sentito persone parlare in spagnolo. E poi mi sono chiesto: sono in un altro paese? Perché la mia famiglia è qui? In quel momento, tutto ciò che volevo era raccontare a mia moglie era un sogno che avevo fatto. Perché per me, durante il coma, ero con Dio, fuori dal pianeta. Se guardavo in basso, vedevo la Terra; se alzavo lo sguardo, vedevo un essere infinito che mi guardava e mi parlava, ma non aveva né bocca né occhi. Una forma non umana che mi dice di stare calmo. È quello che volevo dire a mia moglie appena mi sono svegliato”.

Una tragedia che ha colpito molto anche i figli. I suoi bambini avevano 9 anni all’epoca e per loro, conclude Neto, non è stato per nulla facile: “Per loro è stato molto difficile. Primo, perché si sono resi conto che stavo per morire. Poi, dopo essere uscito dal coma, li ho chiamati sul cellulare. Erano felici che fosse sopravvissuto. Ma quando hanno visto le mie condizioni, è stata un’altra tragedia. Hanno notato la mia situazione e non volevano più parlarmi. Quando sono tornato in Brasile, non volevano quasi abbracciarmi. Erano spaventati da tutte le mie ferite. Sono andati dallo psicologo. Per loro è stato difficile anche perché molti dei loro amici sono figli dei giocatori morti nell’incidente”.

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