Miralem Pjanic, il cecchino bosniaco

calcio02/11/2015 • 10:18
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I cecchini, quelli che accerchiarono la capitale della sua Bosnia, tanto che la via principale di Sarajevo durante la guerra venne rinominata il viale dei cecchini, tennero in assedio la città per 1425 giorni, l’assedio più lungo della storia recente.
Nasce in un anno difficile, il 1990. La situazione in Jugoslavia è in continuo peggioramento, un mese dopo la sua nascita a Zagabria va in scena la partita mai giocata. L’anno successivo scoppia ufficialmente la guerra. Suo padre prende una decisione importante, lasciare tutto e scappare. Destinazione Lussemburgo. Fuggono nel 91, la guerra in Bosnia inizierà esattamente un anno dopo.
“Quando ero bambino siamo partiti presto dalla Bosnia, c’era la guerra che cominciava e mio padre ha avuto l’idea di andarcene in Lussemburgo nel ’91. Mio padre giocava a calcio ed avevamo i documenti per spostarci là. Era un momento molto difficile per la mia famiglia, io ero molto piccolo e mi ricordo poco, ma era per loro molto ostico. Hanno lasciato la loro famiglia per iniziare tutto da capo, non era facile”.
Nel Lussemburgo il padre fa l’operaio per mantenere la famiglia e il piccolo Miralem inizia a dare i primi calci al pallone già all’età di cinque anni. Col passare del tempo impara parecchie lingue, oltre alla lingua madre, aggiunge al suo curriculum, il lussemburghese, l’inglese, il tedesco (ora parla anche il francese e l’italiano, per un totale di sei lingue).  La sua carriera inizia nella squadra lussemburghese del  Fc Schifflange, l’allenatore nota subito il suo talento e lo lancia immediatamente in prima squadra, nonostante la giovanissima età del ragazzo.
Nel 2004 passa al Metz, “Ho scelto il Metz a 14 anni. Ho lasciato la mia casa in Lussemburgo e l’inizio non era facile. Non sapevo come stare da solo, non parlavo benissimo la lingua, ma appena ho fatto 2-3 amici ed abbiamo iniziato a vincere le partite, è diventato tutto più facile. Ancora oggi i miei migliori amici sono a Metz”.
Due stagioni passate tra le giovanili e il debutto in prima squadra nella stagione 2007-2008 gli bastano per convincere gli emissari del Lione ad acquistarlo. Non lo conosce ancora nessuno, è giovane ha solo diciotto anni, il Lione ha in squadra gente come Juninho e Benzema, Miralem è solo uno dei tanti.

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Il primo anno di Pjanic alla Gerland purtroppo non è dei migliori perché a inizio ottobre nella gara Lione-Sochaux si frattura il perone: l’infortunio lo tiene fuori dal campo per diversi mesi, compromettendo la sua stagione. L’evento più importante di quell’anno è l’incontro con Juninho Pernambucano. Miralem impara molto dal brasiliano, prima di tutto la professionalità da mantenere negli allenamenti e poi naturalmente su come calciare le punizione.
“Il mio maestro è stato Juninho, ma lui calciava in modo diverso dal mio. La palla ballava, come quella di Pirlo. Io mi esercito, provo spesso i tiri in allenamento per migliorare la precisione. Ma non le traiettorie, quelle le ho in testa, conosco le distanze dalla porta”.
Passano solamente un anno insieme i due, il brasiliano nella stagione successiva si trasferisce in Qatar. Mire vorrebbe indossare la maglia del suo maestro, ma prima di farlo vuole avere il via libera ufficiale.
“Ho chiamato Juni prima del campionato per chiedergli il permesso di indossare la sua maglia”. Permesso accordato.
Nella seconda stagione francese tutta l’Europa si accorge del  Bosniaco. Il ragazzo migliora a vista d’occhio, si conquista il posto fisso da titolare e arrivano anche gol importanti.
In Francia lo ricorderanno soprattutto per il gol al Santiago Bernabeu, che permise al Lione di passare gli ottavi di finale di Champions League. All’andata i francesi si erano imposti in casa per uno a zero. Al ritorno in Spagna, i blancos passano in vantaggio con Cristiano Ronaldo nel primo tempo, ma il Bosniaco rovina la festa segnando a quindici minuti dalla fine il gol qualificazione.
“Era una partita molto difficile, loro ti mettono una pressione incredibile in casa. Abbiamo fatto molto bene, abbiamo avuto qualche occasione ed al 75′ circa è arrivato questo gol incredibile che mi ha fatto pensare subito alla mia famiglia ed a mio padre che era allo stadio. È stato un momento davvero molto incredibile”.
Il Lione si fermerà solo in semifinale contro il Bayern Monaco, nonostante la stagione successiva non sia da ricordare, nell’estate del 2011 la Roma acquista il gioiello Bosniaco.

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Nella capitale è arrivato Luis Enrique, è lui a volerlo fortemente e non viene deluso.
Tutto fumo e niente arrosto, il progetto spagnolo fallisce, le idee e i cambiamenti che l’allenatore ha in mente non funzionano e non convincono. Il calcio italiano non sa aspettare e così Enrique viene esonerato e automaticamente anche il debutto del ragazzo non è di quelli da ricordare.
“Luis Enrique è stato uno degli allenatori che mi ha aiutato di più ed insegnato di più di calcio; aveva idee diverse dagli altri allenatori che ho avuto, giocava un calcio diverso. Mi è piaciuto lavorare con lui, per me è stato un anno molto positivo perché ho appreso tanto, sia dentro che fuori dal campo e come comportarmi durante la settimana. Anche gli altri vi diranno al stessa cosa, che è una persona molto ligia che pensa sempre al meglio per te. È un allenatore molto bravo e buono”.
L’anno successivo è quello del ritorno di Zeman. Niente da fare, i due non si trovano. L’allenatore riserva al ragazzo tanta panchina. Che tra i due non scorra buon sangue se ne accorgono tutti nel derby di andata del 2012. E’ una giornata piovosa di novembre, la Roma sta perdendo tre a uno, a cinque minuti dalla fine viene fischiata una punizione per i giallo rossi a centrocampo. Tutti penserebbero ad un cross, cosa puoi fare da lì se non calciarla in area?
Miralem ha qualcos’altro in mente, Marchetti commette l’errore di posizionarsi in mezzo all’area ancora prima che il Bosniaco calci, il ragazzo prende un solo passo e calcia di collo esterno forte, la palla prende un giro strano e scavalca il portiere laziale. Gol. Un gol pazzesco. Non esulta, si gira verso la panchina e non gliele manda a dire al suo allenatore. Zeman chiede al suo collaboratore se ce l’ha con lui, il collaboratore conferma. Sì ce l’ha con te.
Altra pessima stagione, altro esonero. Due delusioni di fila per Miralem, due stagioni da dimenticare.
Il terzo anno è quello decisivo, non si può più sbagliare. Non può sbagliare la Roma e nemmeno Mire. Nella capitale arriva il francese Rudi Garcia.  Il feeling tra i due è immediato, l’inizio della stagione ne è la prova, Miralem si ripresenta all’olimpico con un cucchiaio bellissimo da fuori area contro il Verona, anche Mandorlini applaude la giocata meravigliosa. La Roma si aggiudica il secondo posto e prende il pass diretto per la Champions League.
Il bosniaco ritrova il palcoscenico europeo dopo tre anni, ma i giallo rossi non riescono a passare il turno, da dimenticare la cocente sconfitta contro il Bayern Monaco, con le sette reti subite all’olimpico. Anche l’Europa League finisce male, eliminati dalla Fiorentina nei quarti di finale. Ci vuole tempo per creare una grande squadra, ma sembra che le basi ci siano. L’organico della squadra è buono, l’intesa tra i giocatori continua a migliorare, sul mercato la società giallo rossa si è mossa bene. Mire è uno dei titolari inamovibili, mette d’accordo tutti. Quest’anno ha già deliziato l’Italia e l’Europa con tre punizioni meravigliose. Contro Juventus, Empoli e Bayer Leverkusen.

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Avrebbe potuto scegliere un’altra nazionale, per esempio quella francese, di sicuro più blasonata di quella bosniaca, ma Miralem dopo aver giocato per l’under 17 e l’under 19 del Lussemburgo ha deciso di giocare per la sua Bosnia, il richiamo della sua terra è stato troppo forte. Nonostante se ne sia andato da piccolissimo e la vita l’abbia portato a vivere sempre lontano dalla sua amata terra, Mire ha scelto di difendere i suoi colori, la sua patria. Nel 2013 si è materializzato il  miracolo, la nazionale bosniaca si è qualificata per i mondiali disputatisi in Brasile l’anno seguente. La generazione dei fenomeni, allenata dal FENOMENO, quel Safet Susic che incantò la Jugoslavia e la Francia negli anni 70-80.  Dopo aver battuto la Lituania nella partita decisiva, chiamato a commentare la storica qualificazione nella consueta intervista post-partita Pjanic non ha retto all’emozione ed è scoppiato in lacrime.

 

 

“Quando ero piccolo, a 13 o 14 anni, ho fatto un viaggio di venti ore in pullman dal Lussemburgo fino alla Bosnia per vedere una partita della nazionale. Quando sono stato allo stadio, il mio sogno era diventato quello di indossare questa maglia per me ed anche per la gente”.
Purtroppo la selezione bosniaca non è riuscita a superare i gironi, due sconfitte  contro l’Argentina e la Nigeria e una vittoria contro l’Iran, partita nella quale il ragazzo ha messo a segno il suo primo gol nella competizione mondiale.

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Gli piace avere la palla tra i piedi,  potrebbe anche giocare da fermo per le doti tecniche che ha. Rispetta molto la palla, come tutti i giocatori dei Balcani. La accarezza, la coccola,  ha instaurato un rapporto di amore con quell’oggetto sferico e quando gli dice dove deve andare, la palla non lo delude mai. Altra caratteristica che ha ereditato dalla sua terra è la personalità, non ha paura di niente, se c’è da prendersi un rischio non ci pensa su due volte. Quando gli dei del calcio passarono da quelle parti, lasciarono tanta personalità e altrettanta tecnica.
È intelligente, non  è uno di quelli bravi a difendere o che rincorrono l’avversario, ma sa prevedere le giocate, capisce in anticipo il pensiero del suo avversario e lo anticipa.
Leggero, agile, silenzioso, non fa rumore, non sbraita, non urla, alza la voce con i piedi. Quando ha la palla, in quei momenti lo senti eccome. Dal nulla si inventa cose come questa:

Sempre elegante, concentrato, non forza mai la giocata non interviene in modo scorretto. Un giocatore pratico che non perde tempo nel guardarsi allo specchio o a fare giocate per compiacere al pubblico. Riceve la palla, la controlla, la sistema e la gioca. Verticalizza, si appoggia, chiede gli uno due, cambia gioco, addormenta la partita e appena vede la porta calcia, perché lo sa fare. Se c’è la possibilità di calciare da fermo ancora meglio.

Le sue punizioni non assomigliano a nessuno. Nessun effetto strano, nessun modo di calciare particolare, la caratteristica principale dei suoi tiri da fermo è la precisione chirurgica, la palla va dove il portiere non può neanche provare a buttarsi.
Un cecchino buono Miralem, un cecchino che quando spara crea traiettorie magiche.

 

Articolo di: GEZIM QADRAKU

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