Mattia Caldara è stato uno dei difensori centrali italiani più forti degli ultimi anni, prima che un brutto infortunio al legamento crociato anteriore sinistro ne condizionasse pesantemente la carriera. Ha vestito le maglie dell’Atalanta, del Milan e per qualche settimana anche della Juventus. La scorsa stagione ha collezionato 26 presenze in Serie B con la maglia del Modena prima di decidere il mese scorso di appendere gli scarpini al chiodo. La redazione di Chiamarsi Bomber lo ha intervistato per ripercorrere la sua carriera e farci raccontare qualche aneddoto curioso sui suoi ex allenatori e compagni di squadra.
Tu sei cresciuto nelle giovanili dell’Atalanta, considerato uno dei vivai italiani più forti di sempre. Cos’ha il vivaio bergamasco in più rispetto a quello di altri club italiani?
“A differenza di altri settori giovanili, ad esempio Inter e Milan, quando inizi a giocare nell’Atalanta – io ho iniziato quando avevo nove anni – parti con un gruppo e lo porti avanti nel tempo, fino ad arrivare alla Primavera. Mentre nelle altre squadre, vedevo che ogni anno cambiavano tantissimi giocatori. Quelli che non si pensava fossero al livello degli altri venivano cambiati e magari metà squadra dei Giovanissimi non c’era più agli Allievi. Mentre l’Atalanta ha la forza, la pazienza, la visione, di aspettare. Perché magari tanti di noi, quando eravamo nei Giovanissimi, non erano ancora sviluppati, però non venivano tagliati. E magari dopo qualche anno erano i più forti in Primavera. Secondo me loro hanno questa visione e questa pazienza nell’aspettarti e nel crescerti. Per me è questo il vero valore aggiunto. Questo discorso vale anche per me: nel settore giovanile non giocavo così spesso, eppure non venivo mai tagliato. Ogni anno avevo paura di non essere riconfermato e invece hanno sempre creduto in me, come negli altri, dall’inizio alla fine. L’Atalanta l’ho vista come una famiglia. Sono stato lì tanti anni. Questa cosa non la rivedevo negli altri settori giovanili“.
Quando hai iniziato a giocare regolarmente?
“Già dagli Allievi ho cominciato a giocare con più costanza. Ai tempi, i più forti andavano in Primavera, io invece sono passato da quella che ai tempi era la Berretti e poi sono arrivato in Primavera facendo tutti gli step intermedi. Invece ce n’erano alcuni, tipo Grassi, che avevano qualcosa in più e sono saliti direttamente in Primavera. Poi in Primavera ho fatto un anno in cui giocavo sempre titolare, ma ho sentito comunque il bisogno di fare un ulteriore stagione da fuori quota. Non mi sentivo pronto per andare fuori a fare esperienza, né a livello caratteriale, né a livello fisico. L’allenatore dell’epoca, Valter Bonacina, mi aveva chiesto se volevo fare un altro anno e penso sia stata la scelta giusta. Mi ero preso molte più responsabilità, ero capitano. Quindi quell’anno mi ha formato molto“.
Dopo aver fatto bene in prestito a Trapani e a Cesena, torni all’Atalanta dove trovi Gasperini. Ci racconti com’è all’interno dello spogliatoio e se la sua preparazione è davvero massacrante?
“Ho incontrato una persona molto ambiziosa. Quando è arrivato a Bergamo, ci ha subito cominciato a spronare. Avevamo un centro sportivo bellissimo e lui ce lo ha detto: già vedeva i presupposti per costruire qualcosa di importante. Sin da subito aveva l’idea di sfruttare al meglio tutti gli impianti. Voleva fare qualcosa di importante. Cosa che noi non vedevamo inizialmente, visto anche com’era iniziata la stagione. Quello che mi ha lasciato, è la sua grandissima ambizione, il non accontentarsi mai. Anche a gennaio/febbraio del primo anno, che eravamo già salvi, lui non si è adagiato. Ogni giorno ci spronava a dare sempre di più. Sentiva che sarebbe stato un anno importante per tutti. E la sua forza è stata quella: spingerci sempre oltre e non accontentarsi mai. Alla fine siamo arrivati quarti quell’anno, facendo più di 70 punti. Però senza la sua ossessione nel lavoro e nel tirare fuori qualcosa in più da tutti noi, non ci saremmo mai riusciti.
Lui è un maniaco del lavoro. La sua grande forza è che per lui tutti i giocatori sono uguali. Gli interessa poco l’età e il curriculum di chi si trova di fronte. Vuole soltanto che lo ascolti, lavori e durante gli allenamenti vai al massimo. Perché, viceversa, se non lo fai, esci dai suoi radar e inizia a lasciarti un po’ da parte. Se hai la forza di seguirlo e di credere in quello che fa – perché comunque tanti allenamenti erano davvero pesanti – diventi un giocatore forte. Ti tira fuori delle cose che non sapevi neanche di avere, rendendoti migliore. Secondo me con lui devi resistere i primi due o tre mesi, che sono i più difficili perché devi adattare il tuo corpo a ritmi e intensità che non avevo mai visto prima. Però vedevo che il feedback da parte di tutti era quello, nessuno aveva mai fatto niente di simile, erano allenamenti fuori dalla norma.
Difficilmente parlava singolarmente con i giocatori. Aveva un rapporto molto onesto, ti diceva le cose stanno. Se non facevi parte del progetto, te lo diceva apertamente. Le cose che mi sono rimaste impresse, sono quelle che diceva davanti a tutti. Ad esempio, quando analizzavano la parità il martedì, dopo aver finito ogni filmato, lui spingeva sul fatto che non ci dovevamo mai accontentare. Secondo me lui quell’anno vedeva qualcosa di importante, perché si stava creando un’alchimia giusta. Eravamo tanti ragazzi giovani, alcuni alla prima esperienza in Serie A e avevamo voglia di emergere. E quello che ci diceva è che il presente ci poteva cambiare il futuro. Quell’anno poteva essere decisivo per la nostra carriera e per la nostra vita sportiva futura. Lui puntava tanto sul seminare oggi per poi raccogliere qualcosa di positivo in futuro. Questo concetto mi è rimasto ben impresso nella mente.
Lui ti entra dentro. A livello tattico e a livello tecnico ti cambia. Mi ha fatto fare delle cose che mi sembravano il contrario di quelle che avevo imparato fino a quel momento. Dei concetti per cui ti dicevano di fare una cosa e lui diceva l’esatto opposto. E poi ti spiegava anche perché era importante farlo così. Mi sembrava di non capire niente di calcio. Poi chiaramente se la domenica perdi le partite, dici ‘questo qua non capisce niente’, mentre nel nostro caso la domenica di vedevano i risultati. Aveva delle letture diverse. E infatti, poi, sappiamo tutti cos’ha fatto“.
Dopo essere stato per anni etichettato come “allenatore da provinciale”, Gasp sta facendo molto bene alla Roma. Secondo te è maturato o aveva solo bisogno dell’opportunità in una big?
“Secondo me quando era andato all’Inter, la sua idea di calcio non era ancora riconosciuta a livello europeo e mondiale. Adesso, invece, la metà delle squadre si ispira o ha preso spunto da Gasperini. Quando è andato all’Inter non aveva ancora il background che può vantare ora, fatto di risultati importanti. E anche i giocatori che vedono arrivare un allenatore con questo passato, la vivono in maniera diversa. Ai tempi, mi sembra che lui arrivasse dal Genoa, non aveva tutta la credibilità che ha adesso. Il calcio che ha mostrato negli ultimi anni, oltre ad essere bello, è stato anche vincente, tra le qualificazioni Champions e la vittoria dell’Europa League. Pensare che l’Atalanta facesse quello che ha fatto, sarebbe stato impensabile fino a dieci anni fa. E invece ci è riuscito. Ai tempi era tutto diverso, quell’Inter era piena di campioni, aveva appena vinto il triplete e non era facile ricevere il rispetto che invece ha adesso. Ora è visto diversamente, come uno che ha cambiato il calcio“.

Gian Piero Gasperini durante Roma Como di Serie A
Nei primi due anni a Bergamo hai condiviso lo spogliatoio col giovanissimo Bastoni. Si vedevano già le sue qualità? Che rapporto hai con lui?
“Sì, quello che mi ha colpito è che poteva essere tranquillamente un nostro compagno, anche se veniva dalla Primavera. Sia a livello fisico, sia a livello tecnico. Poi aveva una sicurezza disarmante per un ragazzo di 16-17 anni, sotto questo aspetto mi ha colpito tantissimo. Piede sinistro educato, tecnico, non aveva paura. Cosa che magari io, quando facevo gli allenamenti con Colantuono e avevo 16-17 anni, avevo comunque un po’ di timore. Lui invece era sereno, sicuro delle proprie capacità. Poi si notava proprio che aveva un bagaglio tecnico e fisico non comune, perché conta tanto anche quello. Però quello che mi ha colpito di lui sono la sicurezza e la facilità con cui faceva le cose. Infatti avevo detto subito che era un giocatore con qualcosa in più, non c’entrava niente col resto. C’è poco da fare. Io l’ho vissuto nei primi anni, quando era molto giovane. Era uno che lavorava e difficilmente faceva tante battute, perché comunque era all’inizio della sua carriera. Però mi ricordo che anche nello spogliatoio era molto sereno. Se c’era da scherzare, scherzava, non aveva atteggiamenti sbagliati. Cosa che magari si poteva notare in tanti giovani. Lui invece era sempre sereno, sempre col sorriso. Era molto intelligente, sapeva quando non doveva esagerare. Era molto sveglio“.
Non tutti ricordano che nell’estate 2018 hai vestito per pochissimo tempo la maglia della Juventus, prima dello scambio con Bonucci. Che effetto fa conoscere Cristiano Ronaldo?
“Diciamo che gli ho stretto la mano, perché il giorno dopo sono andato via. Però ricordo che in quei giorni sembrava che fosse arrivato un extraterrestre a Torino. Aveva un’aura, un portamento, che in quel momento avevano soltanto lui e Messi. Il fatto che una squadra italiana portasse qui un giocatore di quel livello, dopo tanto tempo, era una cosa ‘nuova’. Dopo gli anni d’oro, in cui tutti i campioni venivano da noi, la Juventus è riuscita a fare la stessa cosa a distanza tempo. Ricordo che c’erano grandi aspettative e tutti non vedevano l’ora di vederlo, perché sembrava un extraterrestre. Quando l’ho visto, non mi sembrava neanche vero. In quel momento ero un giocatore nuovo nell’ambiente Juve e mi rendevo conto che gli stessi senatori della squadra lo mettevano al di sopra di loro stessi. Era una personalità al di sopra di tutti. E quella Juve era una squadra che lottava per la Champions, con dei top mondiali. Ma nonostante questo, lo vedevano tutti come un giocatore da mettere su un gradino ancora più alto“.
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Eri contento di passare al Milan?
“Ovviamente ero contento, sono andato al Milan, il club con più Champions League in Italia. Però ecco, era da un anno e mezzo che aspettavo di andare alla Juve, perché mi aveva acquistato lasciandomi in prestito all’Atalanta. Il fatto di non essermi neanche misurato con giocatori come Ronaldo e Chiellini, anche solo in allenamento, per vedere cosa facevano e rubargli qualche consiglio, mi è mancato tanto. Magari non avrei mai giocato alla Juventus, però anche solo fare sei mesi o una stagione, allenandomi tutti i giorni con loro e chiedere agli altri dei consigli, mi sarebbe piaciuto tanto. Sarei cresciuto molto e avrei avuto un bagaglio sicuramente superiore“.
Con Barzagli e Chiellini…
“Erano il top, in quel momento pensavo a Chiellini e Barzagli come si pensava a Nesta e Cannavaro anni prima. Il livello era altissimo. Poi magari c’è chi dice che preferisce Cannavaro e non Chiellini, però si possono paragonare. Il Barzagli di quella Juve era incredibile: non ricordo un difensore così forte, lo paragono a Sergio Ramos. Non sbagliava una partita. Poi magari Barzagli non ha avuto una carriera paragonabile a quella di questi top, però mi ricordo che in quei tre-quattro anni alla Juve guardavo le partite dei bianconeri soltanto per guardare lui. Non sbagliava niente: né un anticipo, né una lettura, niente. Sempre presente, sempre puntuale, non c’era mai la giornata no. E questa cosa mi è rimasta in testa. Per uno o due anni è stato persino più forte di Chiellini. Quindi la più grande mancanza è stata questa: non aver avuto la possibilità di allenarmi con giocatori di quel livello“.
Milan, esperienza travagliata. Hai qualche rimpianto?
“Sì tanti. Non ho mai potuto esprimermi al 100% quando ero al Milan. Sono arrivato e, nel primo periodo in cui ero pronto per giocare, mi sono fatto male, ad ottobre. Da quel momento, quando mi sono fatto il tendine d’Achille, dopo sei-sette mesi stavo bene, come prima. Sentivo la possibilità di spingere, di non aver paura, ero come prima. Abbiamo fatto la partita in Coppa Italia con la Lazio e secondo me avevo fatto una buona partita, considerando che ero stato fermo per sei-sette mesi. Ero molto soddisfatto della mia prestazione, nonostante la sconfitta. La partita successiva avrei dovuto giocare titolare perché Musacchio era squalificato e c’eravamo soltanto io e Romagnoli. Proprio in quella settimana mi sono fatto male al crociato. Quello è stato il momento più brutto e più buio, perché iniziavo a stare bene, mi sentivo bene. Sentivo di poter dare una svolta al finale della stagione, dopo un anno di sacrifici, in cui non avevo potuto dimostrare niente. Volevo ripagare la fiducia e dare una mano alla squadra. E invece, quando mi sono fatto male in uno scontro di gioco, mi è caduto il mondo addosso. È stata la prima volta in cui ho pensato: ‘non so se riuscirò a dimostrare di nuovo il mio livello’. E avevo 24 anni era il 2018. Mi ricordo che quando ho festeggiato il venticinquesimo compleanno ero a Villa Stuart, ho la foto in cui sono lì con la torta e le stampelle. Avevo già subito un infortunio importante al tendine d’Achille e farmi di nuovo male, in quel modo, è stata una botta importante, soprattutto a livello mentale. Volevo dimostrare di poter stare al Milan, di poter stare a quel livello, e non essere riuscito a giocare mi è pesato tantissimo. Poi anche l’infortunio in sé era brutto, diciamo che il crociato è il collaterale insieme non è il migliore degli infortuni possibili. Quindi vuoi per una questione mentale, vuoi per una questione fisica, quella è stata la prima volta in cui ho iniziato a tentennare“.
Nel tuo primo anno al Milan sei stato allenato da Gattuso. Com’è Ringhio nello spogliatoio?
“A livello caratteriale ti sprona molto, anche in allenamento. Ama urlare e tenere tutti sul pezzo, però fuori dall’allenamento ti lascia scherzare, non è uno di quegli allenatori che esige il silenzio a tutti i costi e che ti rompe le p***. Sa quando lasciarti scherzare e quando martellarti. Durante le 2 ore di allenamento si fa sentire, ma poi finito l’allenamento veniva nello spogliatoio a scherzare con noi. Esigeva molta intensità e grinta, gli piaceva anche vedere l’entrata dura in allenamento”.
Dici che ci porta al Mondiale?
“Spero di sì. Ai giovani manca tanto vedere l’Italia al Mondiale, probabilmente anche per questo i più piccoli hanno perso la voglia di vedere il calcio. Mondiali ed Europei uniscono, ricordo ancora quando nel 2006 vincemmo e andai in centro a festeggiare con gli amici. Non meritiamo altri 4 anni senza l’Italia al Mondiale. Quanto conta Gattuso? Devono essere più i calciatori a rendersi conto della situazione. Sicuramente la tattica e la preparazione della partita sono fattori importanti, ma è principalmente una questione mentale e d’orgoglio dei calciatori. Sulla carta siamo più forti degli avversari dei playoff, dipende solo da noi”.
A gennaio 2020 torni a Bergamo in una stagione fantastica dove arrivate terzi in campionato e raggiungete i quarti di Champions. Avete mai avuto l’impressione di vincere lo scudetto?
“Assolutamente sì. Siamo andati a giocare a Torino contro la Juve che mancavano poche partite alla fine, sa avessimo vinto saremmo andati a -1 da loro. Vincevamo 2 a 1 fino al 90′, poi ha pareggiato su rigore Ronaldo dopo un fallo di mano casuale di Muriel. Forse la Juve avrebbe vinto comunque quello scudetto, ma quella vittoria ci avrebbe dato convinzione di poter fare jackpot. Sono convinto che sarebbe andata diversamente se avessimo vinto quella partita perché eravamo in fiducia e girava tutto per il verso giusto”.

Mattia Caldara con la maglia dell’Atalanta
Chi era il più forte in quell’Atalanta?
“Senza dubbio Ilicic, faceva cose che non ho visto fare a nessun altro”.
In quel periodo Ilicic ha convissuto con la depressione. Come avete capito che qualcosa non andava?
“Dopo la vittoria contro il Valencia, agli ottavi di Champions, lui ha cominciato a stare male. Dopo c’è stato lo stop per il lockdown e quando siamo rientrati lui non si è presentato perché non stava bene. Ci è mancato tanto, soprattutto nei quarti contro il Psg. Sono convinto che sarebbe andata diversamente con lui in campo. All’epoca non ci disse cosa stava succedendo, anche il dottore era fugace sulla questione, probabilmente per proteggerlo. Però noi avevamo capito che qualcosa non andava, anche se non avevamo capito la gravità della situazione. Personalmente l’ho capita solo quando l’ho visto arrivare dimagrito in allenamento. Ancora oggi se ci ripenso mi dispiace, perché è un amico a cui tengo molto. Ripensare che ha vissuto quel periodo da solo, lontano da casa e dai parenti, mi fa stare ancora male perché so che ha sofferto tanto. Mi addolora non aver capito appieno il suo dolore all’epoca. Anche perché è una persona scherzosa, solare, con la battuta pronta, quindi era evidente il suo cambiamento”.

Josip Ilicic ai tempi dell’Atalanta
Si dice che i giocatori non riescono a rendere al top al di fuori di Bergamo. Come mai secondo te?
“A livello fisico quando sei allenato da Gasperini, lui ti fa diventare un motore da 10, ti trasforma… altrove non ti alleni così e il tuo corpo ne risente. Credo che sia questo il motivo principale. Poi ci sono giocatori come Kessié che era già un animale e ha fatto bene anche fuori da Bergamo. E poi 10 anni fa il mister proponeva un gioco che nessuno faceva, con la difesa a 3, giocando uomo contro uomo a tutto campo. Oggi quasi tutte le squadre italiane giocano a 3. Io con Gattuso all’inizio non giocavo proprio perché lui era convinto che non ero pronto per giocare nella difesa a 4. Gasperini ha cambiato il calcio”.
Leao è spesso criticato per il suo atteggiamento indolente. Ma è davvero così? Cosa gli manca per diventare un top?
“Lui ha il potenziale per vincere il Pallone d’Oro: se l’ha vinto Dembelé può vincerlo anche lui. Ha delle qualità superiori alla media e tutti si aspettano che faccia la differenza in tutti e i 90′. Quando ero al Milan lui era molto giovane e non aveva piena consapevolezza dei suoi mezzi, però adesso ha 26 anni e deve rendersi conto del suo talento. Uno strappo, una gamba come la sua, ce l’hanno solo i top players. Se si mette seriamente con la testa, può davvero fare il salto di qualità e Allegri è l’allenatore giusto per farglielo fare. Se si alza col piede giusto può vincere le partite da solo, come nell’anno dello scudetto rossonero. Io gli auguro il meglio perché è un bravissimo ragazzo e lo auguro al Milan che può ritrovarsi un top player in casa.
Che ne pensi di Allegri al Milan? Può vincere lo scudetto?
“È la scelta migliore per il Milan perché è un vincente che ha fatto la storia del calcio italiano. Magari le sue squadre non danno spettacolo però in un contesto come quello rossonero dove conta solo vincere, lui è l’allenatore giusto”.
Due settimane il tuo addio al calcio. Quanto è stato difficile per te prendere questa scelta a soli 31 anni e che obiettivi ti sei dato?
“È stata dura accettare di non giocare più a calcio. Agosto, settembre e metà ottobre sono stati mesi complicati perché passare dal fare il calciatore a non fare nulla mi è pesato. Però è stata la scelta migliore perché il mio fisico non mi permetteva più di giocare come volevo. Quando ho capito che la sofferenza era maggiore del divertimento, ho deciso di cambiare mestiere. Una volta che ne ho parlato con gli altri e che è uscita la lettera di addio al calcio, l’ho vissuta più serenamente. È come se mi fossi tolto un peso. E poi mi ha fatto piacere ricevere tanti messaggi dagli ex compagni, mi sono reso conto di aver fatto qualcosa di buon… Adesso do una mano all’allenatore di una scuola calcio qui a Bergamo, poi l’anno prossimo vorrei prendere il patentino da allenatore per capire se sono in grado di farlo. Non me la sento di staccarmi completamente dal calcio, voglio rimanere in questo mondo”.












