“El cappello de Dios”: quella volta in cui segnai uno storico gol di cappello

calcio26/02/2016 • 09:37
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Quando da ragazzino ero più libero e spensierato, privo di assilli come i due di picche, le scadenze varie e la biologia applicata, c’era una cosa e una soltanto che amavo fare più di tutte: la partitella settimanale con i miei amici. Puntualmente, ci si organizzava per prenotare il campo sintetico della chiesa vicina per un’ora di mazzate, insulti e gesti tecnici di gusto discutibile. Le rivalità, molto spesso, non finivano sul campetto: c’era chi si rinfacciava di tutto nei giorni successivi, chi invece aspettava la nuova sfida in programma con la stessa carica di una finale di Champions League. Io, in particolar maniera, vedevo questa occasione come una continua volontà di riscatto alle ingiurie degli amici. Questo poiché facevo indubbiamente parte di un gruppo che non definirei, in tal caso, di “scarsoni maledetti che sarebbero più inutili anche di Gullo” ma più che altro di “incompresi” il cui posto nel mondo e nel campo risultava essere ancora un mistero.

 


Il perché è presto detto: sin dagli esordi nella scuola calcio non mi segnalai di certo per un grande fiuto del gol, quanto piuttosto per una lentezza esasperante. Sulla carta, ero il giocatore che nessuno tra gli allenatori e i compagni di squadra avrebbe voluto avere, tanto è vero che nelle partitelle finali ero sempre una delle ultime cinque scelte: pachidermico nonostante fossi normopeso, non abbastanza alto da primeggiare sui contrasti aerei, rappresentavo la figura di un attaccante centrale che a conti fatti segnava pochissimo, e sbagliava pure un sacco di rigori. Posseggo infatti un record negativo di 8 rigori sbagliati consecutivi, due anche nella stessa partita. Inoltre, almeno da ragazzino, non peccavo di certo di intelligenza tattica: solo un genio poteva pensare di decentrarsi con l’ausilio di uno scatto pari a quello di un bradipo monco in autostrada.

 


Eppure, nonostante questi grossi difetti, qualche qualità c’era: discreto portiere, attento mazzolatore, avevo nel mio carnet un’inaspettata tecnica di base assimilata in pratica guardando le partite alla tv, che però veniva fuori solo a tratti. Sostanzialmente, ero un panzone wannabe che giocava benissimo da fermo, praticamente un Antonio Cassano in fasce. Sapeste quante bestemmie e quanti applausi per i dribbling senza senso e i colpi di tacco al buio. Sapeste, però, anche quanti gol e assist bellissimi ho fatto toccando in pratica mezza volta la palla.

 


Sono sempre rimasto nella discontinuità. Prima dell’episodio che mi accingo a raccontarvi avevo giocato partite brutte e altre belle, e così avrei fatto dopo questo avvenimento. Ma quello che vi sto per narrare è sicuramente il vanto più “what the fuck?” che potessi mai avere. Classico 5 vs 5 di un pomeriggio invernale, ultimo minuto di gioco. La partita, all’insegna dell’equilibrio e dei suicidi difensivi, si trovava sul punteggio di 7-7 e la stanchezza ormai era padrona del campo, anche per via del freddo bastardo che mangiava le energie. Tale avvisaglia, in realtà, si era presentata in me ben prima della metà di partita, che peraltro avevo genialmente approcciato senza riscaldamento adeguato. Ergo, mi ritrovo solo come un coglionazzo in attacco a fare quello che mi riusciva meglio: non tornare in difesa.

 

I compagni, i quali mi avevano giustamente urlato contro per tutta la gara, non mi avrebbero passato la palla neanche se fossi stato l’ultimo uomo sulla Terra e il mio bazzicare random aveva portato come unico risultato quello di adocchiare a bordo campo una ragazzina molto carina, ma forse potenzialmente un po’ vrenzola (termine napoletano che sta ad indicare letteralmente “qualcosa di poco conto” ma che, nell’immaginario collettivo partenopeo moderno, si associa ad un tipo di genere femminile un po’ ignorante e cafone: insomma, una ragazza terra terra che magari se la tira pure un po’ troppo). La noia stava ormai prendendo il sopravvento e la parità sembrava essere il risultato più giusto. Nell’ultima azione disponibile, però, abbastanza sorprendentemente il mio più caro amico dell’epoca, forse colto da rimorsi vari o più semplicemente da pietà umana, decide di tentare il tutto per tutto con un lungo lancio che, guarda caso, effettua proprio la mia traiettoria.

 

Stavolta sono realmente obbligato a crederci: in pratica ho sonnecchiato per tutta la partita e l’unica occasione che ho avuto l’ho pure sbagliata. Devo fare certamente di meglio, o almeno provarci. Così, stranamente leggo bene il passaggio del compagno e maturo l’intenzione di colpire la palla al volo di testa. Mi rendo però immediatamente conto di un piccolo impedimento che sopraggiunge con limitata ma comunque pericolosa velocità verso la sfera: il portiere avversario, infatti, aveva già capito le intenzioni bellicose e si stava preparando ad uscire facilmente in presa alta. E’ una corsa contro il tempo.

 


A questo punto dovreste immaginarvi il rallenty in scena con la musica di “Fuga Per La Vittoria” in sottofondo. Fatto? Beeeeene. Seppur demotivato, ci voglio credere: quella palla dev’essere mia, devo dare un senso alla partita. Ma il portiere è in vantaggio, è più alto, può usare le mani perché siamo nella sua area e secondo me in testa sua mi prende pure un po’ per il culo. Inoltre, a pochi secondi dall’impatto, mi rendo conto che non arriverò mai di testa su quel pallone senza rischiare la morte. Così, decido di fare qualcosa di assolutamente stupido ma al tempo stesso geniale: mi sfilo il cappello di stagione dalla testa, perché si, d’inverno giocavo col cappello, sono freddoloso, e lo lancio per cercare di prendere la sfera. E il cappello ci arriva. Portiere scavalcato, palla in rete. Et voilà, “El Cappello De Dios” del Maradona del Vomero.

 

Che poi tecnicamente non è un “cappello” ma va beh. Il portiere protesta, ed in effetti all’inizio rimaniamo tutti un po’ confusi. Ma, che io sappia, non esiste una regola, almeno nel calcetto, che vieti i gol di cappello (badate bene, cappellO, simpaticoni). E così la mia gioia è irrefrenabile, un misto tra contentezza e mancanza di comprensione. Fatto sta che segno l’8-7 e andiamo negli spogliatoi con un’inutile quanto desiderata vittoria in tasca.

 

Il gol di cappello nel mio quartiere è ormai famigerato, e nel corso degli anni ha scatenato più discussioni di Calciopoli: era regolare? Come ha fatto il cappello a spingere la palla in rete? Perché diamine ho avuto un’idea così imbecille? Qualcuno crede si tratti di una leggenda, altri semplicemente preferiscono fare cose più utili e non ascoltare queste minchiate. Ma quel gol è reale e, di fatto, è forse la giocata più bella/non sense/anarchica che ho mai messo a punto. Peccato nessuno abbia ripreso quell’attimo, altrimenti il gol di cappello sarebbe potuto realmente entrare nella storia del calcetto. Per ora, mi accontento di ricordare quell’imbarazzante episodio quando posso. Ma, ahimè, non credo ricaverò mai un appuntamento con una bella guagliona raccontando questo aneddoto. Pazienza: gioco di cappello, gioco di villano.

calcio26/02/2016 • 09:37
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