Ho un ricordo indelebile, di una serata di fine aprile, all’inizio degli anni ’90. Una di quelle serate ancora fresche, ma già estive, nelle quali ogni scusa era buona per star fuori. Si aspettava la Coppa Uefa per guardare le partite in cortile. Io portavo la TV. Un paio di prolunghe per arrivare a casa di Luca e poi la sigla dell’Eurovisione. Non eravamo abituati, perché del grande Torino avevamo sentito parlare dai nostri genitori e dai nostri nonni, ma di quel Torino moderno, più forte della Juve, non ci si poteva non innamorare. C’era capitan Cravero, c’era Fusi, c’erano i gladiatori Annoni e Bruno, c’erano Lentini, Scifo, Martin Vasquez (della cui eterosessualità si chiacchierava parecchio) ma soprattutto c’era lui: Walter Casagrande. Ero innamorato di Walter, del suo modo di giocare. Oggi si parlerebbe di “un attaccante che fa salire la squadra“, altro che falso nueve. Di quella insolita saga europea Casagrande fu icona al pari del genoano Aguilera. Il secondo si fermò in semifinale, il brasiliano arrivò in finale. Si sarebbero ritrovati a giocare assieme qualche stagione più tardi, al Toro.
Negli anni ’90, tutte le edizioni della Coppa Uefa furono vinte da una squadra italiana. Tutte tranne una. Era il 1992 e in finale arrivò il Torino. Una coppa persa senza sconfitte, dopo una partita di ritorno ad Amsterdam in cui i granata colpirono 3 pali, gli venne negato un rigore sacrosanto, con tanto di sedia alzata da Mondonico e una celebre intervista in cui Marchegiani dice solo “Dovevamo alzarla noi”. Un altro tassello dell’infinita sfiga granata, quella che ha portato a Superga e a Meroni, tanto per capirci. Per i tifosi granata, il coro “torneremo torneremo torneremo ad Amsterdam” è da allora diventato un mantra che si cantava anche mentre si giocava in serie B contro Licata, Cittadella, Castel di Sangro, e non contro Ajax e Real Madrid. È il canto del ritorno a casa, alla grandezza a cui appartiene la storia granata, una specie di “Va’ pensiero” applicato al calcio.
Ad Amsterdam, il Toro ci arriva dopo aver eliminato Reykjavik, Boavista, AEK Atene, Copenhaghen e Real Madrid. Quel Real Madrid. Il Torino va a giocare al Santiago Bernabeu nella semifinale d’andata della Coppa Uefa. È il 1° aprile: a Torino c’è il concerto dei Simply Red, ma It’s Only Love non basta a definire la passione granata. E il gol che porta in vantaggio è di Walter Casagrande, uno che con i suoi riccioloni da pornodivo anni ’70 e l’aria perennemente tra l’assonnato e lo stralunato è l’antitesi del calciatore di oggi. Ricorda Paulo Roberto Cotechiño, centravanti di sfondamento, ma è decisamente più rock. È un Saul Hudson, al secolo conosciuto come Slash, chitarrista dei Guns’n Roses, dell’area di rigore. Un personaggio dell’epica greca, eroe giovane e destinato ad una storia breve ma gloriosa. La partita del Bernabeu finirà 2-1 per le merengues, ma per i tifosi del Toro, passare in vantaggio al Santiago Bernabeu contro la squadra di Butragueno, Michel e Hagi è un ricordo leggendario.
Passano quattro giorni e c’è il derby contro la Juventus. Casagrande segna la doppietta del 2-0 contro i bianconeri di Conte, Di Canio, Baggio, Casiraghi. Poi, al ritorno in casa contro il Real Madrid, un altro 2-0 in una notte granata che sancisce la qualificazione alla finale e un altro momento epico della storia recente del Toro. In un calcio molto più lento di adesso, Walter unisce due particolarità dei grandi attaccanti: la stazza imponente e la tecnica sopraffina, quella che gli permette di fare il sombrero di tacco, serpentine e dribbling in area, dove si fa largo anche grazie alla sua potenza fisica. Come tanti brasiliani, Casagrande è passato dal Porto, con cui vince subito campionato e Coppa dei Campioni, pur in una stagione segnata da un grave infortunio. Fino a quando non arrivò Costantino Rozzi.
Un giocatore fresco di Coppa dei Campioni che viene comprato dall’Ascoli?
Succedeva anche questo, nei magici anni ’90 in cui quello italiano era davvero “il campionato più bello del mondo”. Succedeva anche che l’Udinese prendeva Gallego dal Real, o il Bari comprava David Platt dall’Aston Villa. I primi anni non furono proprio da bomber, l’Ascoli andò in B e Rozzi gli disse “Devo ridurre il monte ingaggi, non posso tenerti“. Lui gli rispose: “Presidente, facciamo un patto, mi paga a progetto. Io la riporto in Serie A e lei mi conferma l’ingaggio” Fece più di 20 gol, si innamorò di Ascoli. “Si vive benissimo, e poi le spiagge di San Benedetto sembrano quelle del Brasile“. Ci si accontentava di poco allora, anche i calciatori preferivano la riviera marchigiana alle spiagge esotiche. Delle donne (tante) di Ascoli e provincia bomber Casagrande parlerà nella sua biografia.
Dal bianconero al granata, arriva per prendere il posto del suo connazionale Muller, talento inespresso, a Torino ricordato più per le forme della moglie starlet che per le sue gesta sul campo, ma pur sempre titolare della nazionale brasiliana a Italia ’90 al fianco di Romario e Careca in un attacco stellare ma poco fortunato in quell’occasione. E così Casagrande vive una stagione da favola in questo Torino, con la cavalcata europea bloccata solo dai pali di Amsterdam, con la doppietta nel derby, con la consacrazione a talento. Poi arrivarono i problemi, la vita dissoluta, e come tutte le rock star Walter Casagrande finì per ingrassare e imbruttirsi. Ma senza perdere il sorriso. Con i riccioli più corti e il doppio mento non è più il re del lungomare di San Benedetto, ma ha scritto una biografia “Casagrande e i suoi demoni” nella quale racconta “Mi sono fatto di tutto. Cocaina, eroina, canne, tequila, doping: per 20 anni ho giocato alla roulette russa”.
Ma non è questa la storia più affascinante. È molto più prezioso il ricordo di quel gol al Bernabeu, e di una finale di andata contro l’Ajax con lo stadio tutto colorato di granata e noi ragazzini ad esultare per un gol di Casagrande. Quel flash a colori in cui il Toro è stato grande anche per la nostra generazione. Con un bomber atipico, ma straordinariamente efficace.
Grazie per il prezioso contributo (e per i ricordi) a Mauro Marinoni, granata doc.