Quale futuro per il calcio?

calcio11/02/2016 • 08:02
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Il week-end sportivo che si è appena concluso ci ha offerto due avvenimenti sportivi di rilievo, che spingono a fare una considerazione: da una parte c’è stata la cinquantesima edizione del Superbowl, disputatosi nel nuovissimo Levi’s Stadium di Santa Clara e che ha avuto un grande riscontro mediatico anche qui in Italia; dall’altra, in maniera quasi storica se vogliamo, ci sono tifosi del Liverpool usciti al minuto numero 77 del match interno contro il Sunderland per protestare contro il caro biglietti imposto ormai in Inghilterra. Il secondo evento, molto meno pubblicizzato dai media, ha portato anche a qualche battuta sul fatto che il giorno verrà ricordato come il primo in cui “il Liverpool ha camminato da solo”, alludendo all’inno cantato con orgoglio dai tifosi Reds prima e durante ogni partita (effettivamente la squadra ha subito due reti nel finale, facendosi raggiungere sul 2-2). Come possono due eventi così distanti tra loro, oltre che fisicamente anche a livello culturale, avere un nesso logico?

La risposta è molto semplice, e proverò a spiegarvela partendo da questo presupposto: guardate bene gli sport professionistici americani, guardateli con attenzione; è lì che vogliono arrivare, è quello il modello da ricalcare. Tutto deve essere spettacolarizzato, ogni singola partita. E pazienza se a rimetterci saranno i tifosi con meno possibilità economiche, quelli che storicamente occupano i settori popolari e sostengono incessantemente la propria squadra: non c’è spazio per loro, c’è spazio solo per i più abbienti, che possono permettersi di pagare 77 sterline (al cambio circa 100 euro) per andare nella Main Stand di Anfield. Basti pensare che nel 1990 un biglietto nel Kop costava 4 sterline: nel 2010, quindi nel giro di soli 20 anni, il costo è arrivato a 43 sterline.

Ora, il sottoscritto non ha nulla in contrario a questo tipo di eventi: il football americano sta attraendo sempre più persone nel nostro paese negli ultimi anni, e così anche la NBA col suo fascino recluta continuamente centinaia di appassionati (fra cui anche chi scrive questo articolo) pronti a fare le ore piccole pur di seguire in diretta le gesta di Curry, James e compagnia bella. La questione è diversa: davvero vogliamo che il calcio diventi così? Non più uno sport ma uno spettacolo da offrire a chi paga meglio, fregandosene di chi resterebbe dunque escluso da questo nuovo tipo di intrattenimento? Non sono forse proprio i tifosi che vanno allo stadio ad animare la partita (storicamente appunto quelli stipati nei settori col costo minore, per tutta una serie di ragioni socio-economiche) che hanno contribuito a rendere questo sport il più seguito e il più passionale al mondo?

Credo proprio che nessuno voglia questa trasformazione. Anzi, ne sono più che sicuro. E me ne accorgo quando vedo ancora che un paese intero si emoziona per l’incredibile cavalcata portata avanti dal Leicester di Claudio Ranieri, e pazienza come andrà a finire. Me ne accorgo quando vedo campioni affermati e universalmente riconosciuti, con alle spalle più di 20 anni di carriera (si, sto parlando di Totti), palleggiare a bordo campo durante il riscaldamento con un bambino. Me ne accorgo quando sento storie come quella di Alvaro Morata, che dopo una doppietta giunta ad interrompere un momento difficilissimo, trovatosi in un ristorante con Gianmarco a cena da solo con la sua maglia addosso, lo invita al suo tavolo insieme a lui e ai suoi amici, gli paga la cena e gli lascia il numero di telefono.

Sono i tifosi a mandare avanti il calcio. Siamo noi che lo rendiamo quello che è, così magico da essere praticato in ogni punto sperduto nel mondo: dovete rispettarci. E dovete stare attenti a chi vi mettete in casa, perché come diceva Nick Hornby nel suo Febbre a 90° già nel 1992 “l’Arsenal e il Manchester United hanno l’impressione che la gente paghi per vedere Paul Merson e Ryan Giggs, e naturalmente è vero. Ma molti di loro pagano anche per vedere la gente che guarda Paul Merson. Chi pagherebbe per un posto in tribuna se lo stadio fosse pieno solo di pezzi grossi? In pratica il club venderebbe dei biglietti per uno spettacolo in cui l’attrazione principale è stata rimossa per fare loro spazio. Le società devono essere sicure di funzionare e di non incappare in annate magre, perché i nuovi spettatori non sopportano i fiaschi. Questo non è il tipo di persone che ti viene a veder giocare contro il Wimbledon a marzo quando sei undicesimo in Prima divisione e fuori da tutte le coppe. Perché dovrebbe? Ha mille altre cose da fare. Noi aficionados passavamo sopra anche a questo, ma su questa nuova brigata… io non ci farei tanto affidamento”. Le parole dello scrittore britannico sono state, purtroppo per noi, profetiche: il calcio sembra pronto a fare ciò, ad abbandonare i tifosi che hanno sorretto le squadre sempre e comunque per far posto a chi sarà disposto a pagare di più. Ma queste nuove schiere di tifosi non avranno mai l’attaccamento che abbiamo noi, non saranno disposti a fare gli stessi sacrifici quando la squadra andrà male.

E se per ora il problema qui in Italia non ci tocca con mano, basta dare uno sguardo ancora una volta oltremanica, al tanto decantato modello inglese da emulare: gli spettatori che occupano gli stadi sono sempre più di provenienza estranea alla tradizione british che tanto ha contribuito ad aumentare la fama ed il fascino di un campionato che fino a qualche anno fa non era così ricco di denaro e di campioni. Qualcosa di simile si sta vivendo a Roma, seppur per altri motivi: i tifosi di Roma e Lazio sono fuori dalle rispettive curve ormai da inizio anno e i risultati sono sotto gli occhi di tutti; l’Olimpico è diventato ormai una sorta di teatro a cielo aperto, con poche migliaia di spettatori a guardare la partita in silenzio, senza il continuo sottofondo che tanto splendidamente caratterizzava le curve romane.

Alla luce di questa serie di considerazioni, la domanda che sorge spontanea è: cosa ne sarà del calcio? Del calcio come lo intendiamo noi eh, che sembra essere indirizzato ad essere inglobato da un nuovo prototipo in cui non importa più il risultato, ma basta vendere il prodotto e fare cassa, proprio come un’azienda. La nostra risposta può essere solo una: lunga vita al calcio, il nostro calcio capace di farci emozionare per davvero, di farci piangere e gioire nelle nostre curve o davanti ai nostri televisori, insieme agli amici o a sconosciuti di cui ignoriamo persino il nome ma che per una sera diventeranno nostri fratelli. Lunga vita al calcio dei piccoli miracoli, quello che vede una squadra composta da giocatori scartati e snobbati da tutte le grandi in testa al campionato giudicato come il più spettacolare del mondo ma che a livello tattico ne ha ancora di cose da imparare, e il sor Ranieri gliele sta insegnando piano piano; quello che vede una squadra di Lega Pro eliminare due formazioni di Serie A a domicilio e approdare in una storica semifinale di Coppa Italia col Milan. Quello che, in sintesi, di storie da brividi ne ha da raccontare all’infinito, ogni volta una diversa e pronta ad aprire nuovi orizzonti. Lunga vita al (vero) calcio!

 

Articolo di: Francesco Giovannetti

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