La decisione di giocare contro Israele ha sollevato un polverone di polemiche all'interno del panorama calcistico italiano. Il presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina, si è espresso chiaramente sul tema, sottolineando l'importanza di non lasciare che il calcio sia vittima di conflitti politici. Ma si sa, in Italia quando si parla di calcio, si parla anche di opinioni forti e divisioni accese. E nel mezzo, c'è una qualificazione al Mondiale in ballo.
La posizione di Gravina
Durante un'intervista a Radio anch'io Sport, Gravina ha dichiarato: "Non giocare contro Israele vuol dire non andare al Mondiale, e agevolare addirittura la nazionale israeliana. Di questo dobbiamo essere consapevoli." Parole decise che non lasciano spazio a interpretazioni. Il match previsto a Udine il 14 ottobre è un impegno fondamentale non solo per la classifica ma anche per il prestigio del calcio italiano. E a quanto pare, l'idea di non disputare la partita potrebbe costare caro, in termini di qualificazione e immagine.
Solidarietà e responsabilità
Gravina ha voluto esprimere anche una nota di solidarietà, pur mantenendo ferme le sue posizioni sul campo di gioco: "Siamo addolorati, molto addolorati, perché ci teniamo alla dignità umana. Siamo molto vicini alle persone che soffrono in Palestina, in particolare i bambini e i civili innocenti." Questo passaggio è stato fondamentale per dimostrare che l'empatia e il rispetto per la sofferenza non devono per forza ostacolare l'impegno sportivo.
Un girone complesso
In questo contesto, l'Italia è stata sorteggiata in un girone complicato con Israele, e come sottolinea Gravina: "Dire di non giocare vuol dire non andare al Mondiale." Una dichiarazione che spegne ogni velleità di boicottaggio, almeno dal punto di vista burocratico e sportivo. La questione, però, non è solo di pallone. È una sfida tra il campo da calcio e la diplomazia, tra l'ideale e il reale.
Conclusioni inevitabili
Alla fine, la scelta di giocare è anche una scelta di responsabilità nei confronti dei tifosi e del calcio mondiale. Come ricorda Gravina: "Delle due l'una: non possiamo pensare di utilizzare il calcio, che abbatte muri, si unisce e spera di risolvere i conflitti, e poi dall'altra parte invitare a non giocare." La speranza è che lo sport possa, alla fine, fare da ponte, piuttosto che da ennesimo muro divisorio.