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“El loco” Abreu, il bomber girovago che ama Panenka

bomber story01/07/2017 • 16:59
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In Sudamerica il soprannome “El Loco” è uno di quelli che i tifosi affibiano più volentieri ai loro idoli, a voler sottolineare quella vena di follia che in qualche modo caratterizza il loro modo di vedere il calcio, anzi, la vita intera. Persone al di fuori degli schemi come Marcelo Bielsa, uno che “immagina partite che grondano realismo magico” (Federico Buffa docet) e che grazie alla sua folle ossessione ha cambiato per sempre il modo di concepire il calcio, o come Renè Higuita, il portiere che non voleva rimanere relegato tra i pali e preferiva i dribbling sugli avversari o gli scambi palla al piede con i compagni alle parate (o al massimo rimaneva tra i pali per inventare la parata col colpo dello scorpione). Ci sarebbero decine di  altri “locos”, sparsi per tutto il continente sudamericano.

Washington Sebastián Abreu Gallo però è diverso da tutti. Chiunque ne parli non può fare a meno di richiamare il soprannome prima al suo cognome. Un cortocircuito semantico,”El Loco“Abreu, che sembra quasi aver cancellato il suo nome. Negli ultimi 20 anni il gigante uruguaiano, che ha segnato più di 400 gol nelle 700 e più partite giocate, ha incarnato più di tutti la locura sudamericana, per quella specie di bulimia calcistica che lo ha portato a girovagare di paese in paese in cerca di stimoli continui, roba da far sembrare Ibrahimovic quasi una bandiera: nella sua ultraventennale vita calcistica ha cambiato più squadre di tutti quelli che ufficialmente hanno calcato un campo di calcio, 25 in 22 anni, senza mai rimanere per più di due anni consecutivi con la stessa maglia. Defensor Sporting, poi nell’ordine San Lorenzo, Deportivo La Coruna, Gremio, Guadalajara, Nacional, Cruz Azul, America, Dorados, Monterrey, San Luis, Tigres, River Plate, Beitar Gerusalemme, Real Sociedad, Aris Salonicco, Botafogo, Figueirense, Rosario Central, Aucas, Sol de America, Santa Tecla, Bangu, Central Espanol ed ora il Deportes Puerto Montt, a 40 anni suonati.

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Ma quel soprannome è legato soprattutto al suo modo di calciare i rigori. Il cucchiaio o la “cavadinha“, come viene chiamata in Brasile, quel gesto che ha reso celebre Antonin Panenka, che col suo rigore regalò l’Europeo del ’76 alla Cecoslovacchia e che è diventato il pezzo forte del repertorio dell’attaccante uruguaiano. Altri lo hanno eseguito, combinando disastri (non nominate mai il nome di Maicosuel dalle parti di Udine, per cortesia) o realizzando capolavori immortali (Totti e Pirlo in Nazionale, ad esempio), ma nessuno come Abreu è capace di rischiare il cucchiaio con tanta frequenza e con la naturalezza di uno che sta uscendo a fare una passeggiata, forse perché nessuno è così “Loco”.

Una vera e propria ossessione che gli è stata trasmessa da un altro sudamericano loco quasi quanto lui, quel fenomeno di Djalminha che per anni ha incantato a La Coruna e che ha buttato la possibilità di essere Campione del Mondo col Brasile nel 2002 per aver dato una testata a quello che era il suo allenatore proprio nel Deportivo, Javier Irrureta. Un maestro sui generis, e come poteva essere altrimenti. Meno di un anno con la maglia del Depor, neanche troppo positivo (in Europa Abreu ha giocato forse una sola buona stagione, quella alla Real Sociedad in Segunda Division), giusto il tempo di apprendere dal brasiliano il segreto di quello che poi sarebbe diventato il suo colpo preferito. «Ci sono tre regole – gli diceva Djaliminha- devi osservare il portiere, correre veloce verso il pallone e soprattutto giocartela con parsimonia. Ma questa è solo teoria. Ciò che conta è la tua personalità, la tua intuizione, la tua emozione».

In quel colpo Abreu rivede un po’ il suo modo di essere, sempre un po’ al limite, e dimentica abbastanza in fretta di usarlo con parsimonia, ma i risultati sono pazzeschi: 22 gol su 24 tentativi. Sempre la stessa sicurezza nell’accarezzare il pallone per farlo atterrare dolcemente alle spalle del portiere, nessun tremolio neanche quando la posta in palio è alta. E la sua lucida follia lo ha fatto entrare più volte nella storia. Col Botafogo, nella partita decisiva per il titolo Carioca del 2008 contro la Fluminense, sul 2 a 1 per gli avversari si è ritrovato a battere il rigore del pareggio. Cavadinha, ovviamente, solo che Diego Cavalieri in porta non si è mosso di un centimetro e il pallone gli è arrivato direttamente tra le mani. Poi però, 5 minuti dopo, altro rigore. Chi va a batterlo? Lui. Nessuno al mondo pensa che Abreu sia così folle da fare un altro cucchiaio, l’errore di prima pesa ancora e il pareggio è fondamentale per cercare di recuperare la partita. Palla sul dischetto, e cosa fa? Cavadinha, ovviamente. Alla fine il Botafogo vince, e per l’anno successivo all’addio dell’attaccante sceglie di celebrarlo colorando la seconda maglia di celeste, il colore della nazionale uruguagliana. Si, una squadra brasiliana che usa una maglia celeste per celebrare un uruguaiano. L’amore per “El Loco” fa dimenticare anche il Maracanazo.

Prima l’errore

 

Poi la redenzione

 

Da idolo di una squadra a idolo di una Nazione intera il passo è lungo, soprattutto se hai 34 anni e sei ormai in quella fase in cui un attaccante è ormai prossimo al declino. Ma se una partita è folle, può deciderla solo uno come Abreu. Ghana-Uruguay è tutto e il contrario di tutto: supplementari, l’espulsione di Suarez per la “parata” su un tiro a botta sicura di un avversario, Asamoah che va sul dischetto e tira alto, schiacciato dal peso della responsabilità di portare per la prima volta una squadra africana nella semifinale di un Mondiale. Lui non è Abreu, che entra in quella partita perché sa di dover compiere una missione e sa già come andrà a finire. Lo aveva già detto a Tabarez: “voglio essere l’ultimo a tirare“, nonostante il selezionatore volesse fargli battere il terzo rigore. Ha parlato al compagno Eguren il giorno prima della partita, dicendogli che avrebbero vinto grazie a un suo rigore, e quando si avvicina al dischetto manca poco perché la sua profezia si avveri. Forlan è a centrocampo, ripete “non fare la cavandinha“, come se Abreu potesse sentirlo. Come se non sapesse che l’avrebbe fatta comunque. Kingston lo guarda e si chiede se è abbastanza pazzo da fargli il cucchiaio, ma è la partita che può far tornare l’Uruguay tra le prime 4 dopo più di 50 anni, con tutta quella pressione non può farlo.

Le vuvuzelas suonano in sottofondo, la rincorsa è quella solita. Il portiere si muove in anticipo, quel che viene dopo è la sintesi di un’intera carriera, dalle lezioni di Djalminha in poi. Tocco morbido, che termina la sua corsa lentamente nella rete. 

 

È quel rigore che rende Abreu un mito uruguaiano (nonostante sia comunque uno dei migliori marcatori della storia della sua Nazionale, con 26 reti) al fianco di Obdulio Varela, Alcides Ghiggia e dei grandi fuoriclasse della storia della Celeste. Un “Loco” tra le leggende, chi lo avrebbe mai detto?

Grazie a Vincenzo Renzulli per le preziose informazioni.

 

 

 

 

 

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Autore

Redazione

Tags :Mondiali

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